Maida: «Montanelli e non solo: quale memoria pubblica vogliamo?»

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di Valerio Marchi

Negli anni dell’aggressione italiana all’Etiopia, Indro Montanelli comprò e sposò una dodicenne eritrea. Non se ne pentì: «In Africa è così, disse», e lo stesso dicono in tanti ancora oggi. Giorni fa, a Milano, la statua che ricorda l’illustre giornalista di Fucecchio è stata imbrattata di vernice rossa e con le scritte “razzista” e “stupratore”. Una spinta verso questo genere di contestazioni proviene oggi da quelle su scala mondiale per la morte di George Floyd, ma non sono mancati atti di protesta anche in anni passati. Le riflessioni (qui quella di Valeria Palumbo sulla 27esima Ora del Corriere della Sera) e le polemiche di natura storica e ideologica riguardano monumenti celebrativi di epoche e personaggi legati al razzismo e al colonialismo: i casi delle statue di Cristoforo Colombo in Minnesota, del mercante di schiavi Edward Colston in Inghilterra e di Giulio Cesare in Belgio sono i più eclatanti.

A Milano, un movimento di “laici e antifascisti” ha chiesto al sindaco Beppe Sala di intitolare i giardini pubblici di via Palestro a qualcuno degno di rappresentare una città Medaglia d’oro della Resistenza e di rimuovere da lì la statua di Montanelli. Abbiamo chiesto un parere allo storico Bruno Maida, dell’Università degli Studi di Torino, esperto di temi legati al razzismo e al colonialismo e autore di lavori importanti (citiamo, fra i più recenti, La Shoah dei bambini. La persecuzione dell’infanzia ebraica in Italia 1938-1945, del 2013 e L’infanzia nelle guerra del Novecento del 2017).

Professore, molti difendono Montanelli dicendo che ciò che fece era «effetto dei tempi».

«In realtà, se vogliamo parlare davvero di storia, a quei tempi c’erano anche tanti antifascisti e una maggioranza di persone che non si sarebbero mai sognate di agire come Montanelli. Io direi piuttosto che ciò che accade oggi è l’effetto dei tempi e che dobbiamo riflettere sul presente quale riflesso di quel passato».

Ci spiega meglio?

«Al di là del giudizio che si può dare sull’imbrattamento della statua e su altri casi analoghi, mi pare evidente che ci sia una volontà di ripensare lo spazio e la memoria; e quel che conta – a prescindere da fatti “iconoclasti” come questi, che sono sempre accaduti – è la relazione fra ciò che noi vogliamo ricordare o dimenticare».

Auspicherebbe dunque una discussione pubblica in proposito?

«Sì, è la politica dovrebbe responsabilmente assumersi il compito di ridiscutere le questioni di memoria e di identità. Ovviamente interpellando in modo serio gli storici e coinvolgendo la comunità».

Il problema, dunque, non è: statua a Montanelli sì o no…

«In effetti, mi sembra decisivo solo quanto ci misuriamo sul nostro passato. Ci riconosciamo oppure no, ad esempio, nei nostri trascorsi razzisti e coloniali? E allora l’altra questione è: si pensa forse che togliendo la statua di Montanelli, e magari sostituendola con una in onore delle vittime del nazismo, diventeremo migliori? Ma il comunismo non è sparito in Romania dopo l’abbattimento della statua di Ceausescu, né in Italia siamo stati meno fascisti demolendo le statue di Mussolini…».

Ma lei la statua a Montanelli l’avrebbe voluta?

«Io no, ma ancora non è questo il punto, le opinioni possono essere diverse. Il punto è come ci misuriamo con quel pezzo di storia. Su questo la nostra memoria pubblica è molto debole. E la memoria pubblica non è un luogo da affrontare in modo autodifensivo, come mi pare abbiano fatto in questa circostanza alcuni giornalisti come Cazzullo, Lerner, Travaglio, o Mieli. Dunque, ancora, domandiamoci quale memoria pubblica vogliamo».

Prima ha detto «storici autentici». Montanelli lo era?

«È stato un giornalista, ma non si misurava mai con il metodo e con il lavoro dello storico. Essere un bravo divulgatore è un indubbio merito, fare lo storico è però cosa diversa».

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