Miles Davis: 30 anni dalla morte. E la sua musica ancora nell’aria

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di Valerio Marchi

Fra gli innumerevoli musicisti che sono stati influenzati da Miles Davis c’è anche il nostro Enrico Rava, il quale, raccontando ciò che lo sospinse verso la propria straordinaria carriera, ha detto:

«La vera folgorazione risale al 1956. Abitavo a Torino e andai ad ascoltare dal vivo Miles Davis. Pochi giorni dopo comprai una tromba e tre, quattro anni dopo cominciai a suonare in gruppi»;

nel 1970, poi, mentre suonava in un Club, Rava si ritrovò Miles in seconda fila ad ascoltarlo e, alla fine, ricevette i suoi complimenti. L’emozione, ovviamente, fu indescrivibile, e sono anche fatti come questo a rendere l’idea di quanto Miles sia stato una calamita, un faro, uno dei più originali e influenti e sorprendenti musicisti del secolo scorso.

Street Art, Treviri, Germania. Foto di Valeria Palumbo

A Hubert Saal, che nel 1970 lo intervistava per “Newsweek”, Miles disse con la sua proverbiale aria truce: «Scrivilo. Scrivi tutto. E ascoltami bene, non cercare di farmi passare per un tipo simpatico». L’avvertimento era perfettamente in linea con la personalità del grande trombettista dell’Illinois: scontroso, capace di giudizi trancianti, a volte insopportabile e offensivo, spocchioso… Quando Cheryl McCall gli chiese che cosa pensava di poter diventare quand’era bambino, lui rispose: «Il più grande fra quanti avessi mai ascoltato» (d’altronde, fu il suo stesso primo vero grande insegnante, Elwood Buchanan, a dirgli: «Suona chiaro, sviluppa il tuo stile, perché sono certo che lo puoi fare. Hai abbastanza talento per diventare tu stesso il tuo trombettista preferito»).

Sapeva inoltre essere sprezzante verso i critici e verso il pubblico, ma soprattutto verso i bianchi: «Il mio nome è il mio colore», diceva, e raccontava: «Uno dei miei primi ricordi è un uomo bianco che mi rincorre per la strada gridando “nigger! nigger!». Da questo episodio emblematico si possono capire molte cose di certi suoi comportamenti.

Il settimanale “Ebony” lo definì «il genio cattivo del jazz», ma tutto ciò – come ha osservato Arrigo Polillo – sarebbe «troppo odioso per essere vero». In effetti, soffermandosi eccessivamente sull’arroganza di Miles e su quel suo distacco che si avvicinava talora al cinismo, si trascurerebbe la natura privata di un uomo anche divertente e che sorrideva spesso (sebbene mai in pubblico, perché, come spiegava, proprio come suo padre non voleva apparire «come un vecchio zio Tom», uno di quelli «che leccano i piedi – in realtà usava un’espressione più forte – ai bianchi»).

Fedele agli amici, sapeva essere buono e generoso e farsi amare da chi lo conosceva bene. La sua ultima moglie, Cicely Tyson, disse che certi atteggiamenti di Miles erano «come una maschera per proteggere la sua vulnerabilità» e che dietro la facciata c’era «un uomo pieno di sensibilità e molto buono». Pochi come lui, inoltre, erano capaci di scegliere e valorizzare al meglio chi lavorava al proprio fianco; sapeva come lavorare con gli altri e come circondarsi di musicisti di grandi capacità e intelligenza, tirandone sempre fuori il meglio.

C’è un po’ di tutto, dunque, in questo genio che – come ha scritto il suo biografo Quincy Troupe – in quanto tale vedeva «cose che nessun altro riesce a vedere e sentiva «cose che nessuno riesce a sentire», effondendo sia «note calde, rotonde, che toccavano le corde più intime dell’animo umano» sia «trilli così acuti da evocare il suono rabbioso di una sparatoria». E non di rado, ascoltandolo, «capivi di ascoltare la perfezione».

Miles Davis disegnato da Valerio Marchi

Qualunque biografia che pretenda di essere completa e veritiera è un tentativo pressoché disperato, ma ciò vale a maggior ragione per personaggio complessi e per vari aspetti enigmatici come Miles Davis, che vogliamo comunque ricordare a trent’anni dalla morte (28 settembre 1991). Come ha opportunamente sintetizzato Luca Cerchiari: «Ambiguo come ogni grande, Miles non ha mancato di svelare zone d’ombra, artistiche e caratteriali, giungendo a promuovere una poetica del doppio, peraltro densa di fascino». Sì, perché lui è stato il raffinato e tormentato «Principe delle tenebre», morto e rinato diverse volte, irruente ma talora schivo e insicuro, protagonista di una vita trascorsa fra grandi soddisfazioni ma anche grandi solitudini, frequentatore sia degli abissi del vizio e della depressione sia delle dimensioni più quiete, ispirate e creative: perciò, come ha osservato Gianfranco Nissola, la sua collocazione – nonostante i torrenti di parole fluiti nei decenni per «raccontarne l’esistenza leggendaria e spiegarne la musica inarrivabile» – rimane «nella sfera dei misteri ancora da decifrare».

E rimane, al di là di ogni altra considerazione, il ruolo fondamentale che Miles ha avuto nel Novecento e che, indirettamente, ha ancora oggi. Come ha scritto Vittorio Franchini, Miles ha saputo «attraversare tutte le mode, tutti gli stili, anche di costume, del secondo mezzo secolo del Novecento, captando l’evolversi delle forme, accettando i mutamenti, addirittura facendoli suoi, ribaltandone i contenuti, offrendo inedite dimensioni alla musica, aprendo nuovi spazi»: «Non suonare quello che c’è lì, suona quello che non c’è», diceva… e così, abbattendo barriere e tradizioni, ha innovato continuamente («piuttosto morire che suonare sempre la stessa musica», avvertiva), determinando svolte epocali e muovendosi fra estetica, business, pittura, cinema, tv e video-clip, musica per film e per teatro, senza dimenticare la celebre e discussa autobiografia del 1989.

Dunque, come ha scritto guido Michelone, siamo di fronte senza ombra di dubbio ad un «artista completo, un personaggio a 360 gradi, addirittura una figura multimediale» e «performer nel senso più totale della parola: azione, gesto, sguardo, mimica, silenzi, rumori, suoni».

«La musica è stata la mia vita e i musicisti che ho conosciuto e amato e dai quali ho imparato sono diventati la mia famiglia», disse mentre i suoi giorni stavano ormai per concludersi, e aggiunse:

«Sono attratto dalla musica, vado a letto e penso a lei, mi sveglio e penso a lei. È sempre lì. E la amo da pazzi perché non mi ha mai abbandonato. Mi sento baciato dalla fortuna».

È la storia di un amore durato in pratica una vita intera: «Già a dodici anni la musica era diventata la cosa più importante della mia vita», ricordava. E appena diciottenne, quando avvicinò giganti del jazz quali Dizzy Gillespy, Charlie Parker, Art Blakey o Billy Eckstine, percepì queste sensazioni: «La musica se ne andava per tutto il corpo, ed era esattamente questo che volevo sentire. Il modo in cui quella band suonava era l’unica cosa che volevo sentire». Ma da lì in poi avrebbe sentito, e fatto sentire, molto altro.

Quando ricordava i grandi con i quali aveva collaborato e che erano già scomparsi, si diceva convinto che i loro spiriti camminassero dentro di lui, e che lui potesse poi passarli ad altri: «Loro sono una parte di ciò che io sono oggi… Credo che la loro musica sia ancora in giro da qualche parte, nell’aria, e quella roba era veramente magica». Lo è ancora, ovviamente. Ed è più che mai nell’aria.

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