Lettere dal Gulag: gioia e inferno per Losev

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di Simone Campanozzi

Aleksej Losev studente all’Università di Mosca, 1915.

Definito “l’ultimo filosofo russo”, Aleksej Fëdorovič Losev (1893-1988) è considerato oggi uno dei più autorevoli pensatori russi del XX secolo. Le sue opere filosofiche sono pubblicate in patria con una certa frequenza, nel centro di Mosca è sorta “Casa Losev” (Dom Loseva) e gli è stato dedicato perfino un film (Losev, di Viktor Kosakovskij). In Italia, al contrario, è conosciuto quasi esclusivamente tra gli accademici e gli studiosi della cultura e della lingua russa. A compensare questa mancanza ci pensa l’importante volume Aleksej Losev, Valentina Loseva La gioia per l’eternità. Lettere dal gulag (1931-1933), pubblicato per la collana di Memorial “Narrare la Memoria” (Guerini e Associati, 2021), in cui possiamo leggere per la prima volta in italiano, con la traduzione di Giorgia Rimondi, la sola corrispondenza che si è conservata, che va dal dicembre 1931 al settembre 1933, tra il filosofo e la sua amata moglie, anch’essa una importante scienziata e astronoma. Un carteggio che si configura come un documento unico, “un romanzo in lettere”, come ci racconta nella postfazione la storica russa Elena Takho-Godi che, oltre a ricostruire la complessa figura di Losev, le radici del suo pensiero e della sua religiosità, spiega al lettore il motivo della scelta di un titolo, che effettivamente cozza con la dimensione concentrazionaria dell’”arcipelago gulag” in cui erano finiti i due coniugi. Ma andiamo con ordine.

Valentina Sokolova (Loseva) all’inizio degli anni Venti del Novecento.

Filosofo, filologo, scrittore, erede di quella tradizione del pensiero organicista, in cui coesistono il neoplatonismo antico, lo spiritualismo e il misticismo cristiano-ortodosso, l’idealismo tedesco, Husserl e, al contempo, Nietzsche, Losev non può che combattere il determinismo e una visione grettamente positivistica e materialistica della vita. Fin da giovane, egli studia con interesse il vitalismo di Bergson, dal quale mutua il concetto di durata, quale tempo vissuto in cui ciascun istante si compenetra, nella molteplicità qualitativa dei fenomeni psichici. Come scrive lui stesso, dal padre, professore di fisica e matematica e virtuoso violinista e direttore d’orchestra, ha “ereditato la natura ribelle e indomita, la sua ricerca perpetua, il piacere del libero pensiero, il suo distacco verso il quotidiano”. I suoi interessi spaziano dalla letteratura al teatro, dalla musica all’astronomia e i suoi autori preferiti vanno da Dostoevskij a Shakespeare e a Čechov, da Richard Wagner a Čajkovskij. Nel 1911 Losev entra all’Università di Mosca per seguire filologia classica e le lingue antiche, latino e greco, e parallelamente studia filosofia e psicologia, entrando in contatto con intellettuali prestigiosi, tra cui il poeta simbolista Vjačeslav Ivanov e i filosofi Nikolaj Berdjaev, definito da Losev “apostolo della libertà”, e Sergej Bulgakov.

Alla dacia a Otdych. Aleksej Losev, M.F. Ovsjannikov, e dietro di loro (da sinistra) A.A. Tacho-Godi, M.A. Tacho-Godi e E.A. Tacho-Godi. Estate 1974

Si reca a Berlino per lavorare alla Biblioteca Reale, ma lo scoppio della Grande Guerra lo costringe a tornare precipitosamente in Russia. Inutile dire che la Rivoluzione bolscevica del ’17 e l’instaurazione del potere leninista prima e stalinista dopo costringerà Losev e altri filosofi e intellettuali o a soggiacere alla censura o a emigrare verso la Francia e l’Europa. Il nostro opta per rimanere in patria, ma si troverà nella condizione di dover pubblicare a proprie spese le opere scritte nel corso di dieci anni. Tra il 1927 e il 1930, pubblica un gruppo di otto opere, fondamentali per comprendere il suo sistema filosofico. Tra queste Dialettica del mito, nella quale Losev riunisce la filosofia della natura e la filosofia dello spirito in una filosofia del “Nome”. Quest’ultimo acquisisce pienezza e profondità ultima nel mito, inteso non come finzione, ma come “pienezza ultima, autocomprensione e autorivelazione della realtà” (pag. 234).  Quanto di più lontano dal sistema materialistico marxista-leninista, Losev cercò fino all’ultimo di elevarsi al di sopra della tirannia delle circostanze, denunciando amaramente che “la rigida censura comunista rende impossibile una discussione filosofica libera, e siccome le opere di tutti i filosofi «idealisti», comprese quelle di Cartesio, Leibniz e Kant sono state ritirate dalle biblioteche e non si trovano se non con grandi difficoltà, non esiste praticamente nulla che possa contrastare la propaganda «materialistica» portata avanti nelle opere ufficiali” (p.235).

Da sinistra a destra_ O.S. Shirokov, A.F. Losev, I. Dolgopol’skij e A.V. Shirokova alla dacia. 1981.

Inevitabile si abbatte presto su Losev la persecuzione del governo staliniano. Viene dapprima licenziato dall’Accademia nazionale delle Scienze artistiche e dal Conservatorio di Mosca, dove insegnava estetica, poi dichiarato «nemico del popolo», durante il XVI Congresso del Partito Comunista e, infine, il 18 aprile 1930 viene arrestato e poi deportato. Aver pubblicato La dialettica del mito gli sarà fatale, in quanto nell’opera Losev dimostra come le idee sociali si impadroniscano tanto dei singoli individui quanto di intere società: “Dal punto di vista della mitologia comunista, non solo «uno spettro si aggira per l’Europa»…ma «brulicano i rettili della controrivoluzione», «ululano gli sciacalli dell’imperialismo», «l’idra della borghesia mostra i denti», «gli squali della finanza spalancano i denti»…e tra queste tenebre spicca l’«alba rossa» del «mondo in fiamme». Che quadretto! E poi dicono che qui non vi è alcuna mitologia?” (p.236). L’unica sua gioia e speranza di vita è l’amata Valentina Michajlovna (1898-1954), che aveva conosciuto a Mosca nell’estate del 1917, pochi mesi prima dello scoppio della rivoluzione bolscevica.

Valentina Loseva

Nel 1922 vengono sposati da padre Pavel Florenskij, noto filosofo e teologo, autore di un breve testo dal titolo La gioia eterna, che Losev regala a Valentina poco prima del matrimonio. In realtà, ciò a cui saranno destinati i coniugi Losev è una vera unione spirituale, che si concretizzerà il 3 giugno del 1929, quando l’archimandrita David, loro padre spirituale che aveva trascorso diversi anni sul monte Athos, officia la loro ordinazione a monaci con i nomi di Andronico e Atanasia, in memoria dei santi sposi vissuti nel V secolo ad Antiochia. Ma questo segreto sarà reso noto solo nel 1993, per il centenario della nascita di Aleksej Losev. In tal modo, possiamo comprendere il motivo per cui nel carteggio gli sposi si confessano mutualmente, e più chiare ci risultano espressioni come “Io-sposo-padre-figlio-fratello / Tu-sposa-madre-figlia-sorella” o quando egli si firma “il tuo figlio spirituale, padre e fratello Andronico”. Fin da giovane Losev aveva ben chiaro che fosse meglio una sofferenza che aveva un senso rispetto a una felicità che non ne aveva. Forse non immaginava a quale sofferenze sarebbe andato incontro nella sua vita, ma sicuramente la fede in Dio e in un “Senso superiore” lo aiuteranno a sopravvivere perfino allo Svirlag, famigerato campo di nei pressi del Lago Lagoda. Quando arriva nel lager, il 3 ottobre 1931, dopo aver trascorso diciassette mesi in diverse prigioni, Losev è già un uomo profondamente provato, gravemente malato (diventerà quasi cieco), riconosciuto invalido prima di seconda e poi di terza categoria, ma avviato ugualmente ai “lavori comuni”, in particolare alla fluitazione della legna, chiamato a dare il suo contributo alla costruzione di quello che oggi è conosciuto come Belomorkanal, il canale artificiale di oltre duecento kilometri che collega il Mar Baltico col Mar Bianco.

Manoscritto di un’opera di Losev sulla mitologia classica, 1930. Foto Marika Govtvan, RGB

È una grandiosa opera di ingegneria voluta da Stalin e costruita praticamente a mani nude dai prigionieri politici, sull’inferno di quel canale, dedicato al “piccolo padre”, sulla quale il grande Solzenicyn ha scritto pagine toccanti: “Alla fine della giornata lavorativa sul cantiere rimangono dei cadaveri. La neve ricopre le loro facce. Qualcuno si è rannicchiato sotto una carriola capovolta, ha nascosto le mani in tasca ed è morto così. Là sono congelati in due, appoggiati uno alla schiena dell’altro. Sono giovani contadini, i migliori lavoratori che si possano immaginare…Di notte parte una slitta per raccattarli. I carrettieri buttano i corpi sulle slitte con un tonfo, legno contro legno. D’estate si trovano le ossa dei cadaveri non raccolti per tempo, capitano insieme alla ghiaia nella betoniera. Così sono finiti nel calcestruzzo dell’ultima chiusa presso la città di Belomorsk e là si conserveranno per sempre”. (A. Solzenicyn, Arcipelago Gulag 1918-1956. Saggio di inchiesta narrativa. III-IV, Milano, Mondadori, 1995, pp. 97-103. Traduzione di M. Olsùfieva).

I coniugi Losev sulle montagne del Caucaso, 1936

Losev rimarrà in quell’inferno fino alla metà di luglio del 1932, scrivendo alla sua amata Valentina lettere strazianti, soprattutto dopo aver scoperto che “la cima”, così veniva chiamato lo spazio di tre camere posto al piano ammezzato dell’appartamento dei suoceri, dove aveva vissuto con la moglie, era stato smantellato con tutti i suoi libri, per far posto a un funzionario dell’OGPU: “E così, cara, la nostra «cima» non c’è più. È stata distrutta, quella dolce dimora di preghiera, d’amore, d’altre ispirazioni dello spirito e del cuore, rifugio di tenerezza e di pace, porto dell’intelligenza nell’afflizione e nel caos della vita” (19 febbraio 1932).  Il pensiero che i suoi amati volumi, da Cusano a Kant ed Hegel, fossero stati profanati, forse distrutti, lo lasciava nella più profonda prostrazione:

“Che cosa ci resta al di là di questa vita miserabile che conduciamo? Come uscirne? Jasočka cara, salvami, trova un modo, senza di te morirò. Jasočka, mia cara, consolami, asciuga le mie lacrime, singhiozzo come un bambino, non so che cosa mi succede”.

La mente e la stessa profonda fede di Aleksej Losev vacilla, di fronte alla perdita dei suoi volumi e del suo lavoro: “Com’è possibile che Dio permetta una vendetta così selvaggia e un simile scandalo spirituale? Dio ci tormenta già da due anni e non si vede la fine”. Egli non poteva tollerare che due persone come loro, unite nella scienza, nella filosofia, nel matrimonio spirituale e nel monachesimo, indifferenti alle ricchezze, alla gloria, ai volgari piaceri materiali e carnali, dovessero vivere separate e in cattività, private dei propri libri: “Forse un giorno vedrò un senso in questa folle assurdità che ci circonda e sorriderò pensando alle mie sofferenze di un tempo! Ma al momento presente la mia anima perde la sua verginità e la sua innocenza e si dimena come una donna violentata, che perde quello che ogni donna nel suo profondo vorrebbe conservare”.

Ecco che ancora una volta è la sua amata moglie a rappresentare l’unica ancora che gli permette di non affondare per sempre: “Tu sei la sola a non dimenticarmi. Jasočka, mia gioia. Dio ci ha abbandonati, e che possiamo noi attendere se non la morte?…Salvami in qualche modo e resuscitami per una vita nuova. Ho smarrito la via e non so più nulla”.

Lettera di Losev a Michail e Tat’jana Sokolov del 18 novembre 1931. Svirlag-Mosca. Foto Marija Govtvan, RGB

Valentina assurge a donna salvifica nelle accorate parole del suo amato, diviene la sua patria, la sua figliola, l’anima e la tenerezza eterne. Per ella vale ancora la pena pregare e la sua immagine spezza le tenebre che ottundono e fiaccano la mente di Losev: “Senza di te sarei già da tempo caduto, se non nell’irreligiosità, nella totale disgregazione interiore, al pari di tanti uomini che vedo qui e che infatti sono la grande maggioranza”. Una volta ricevute, Valentina vergava sopra alcune di queste righe scritte dal marito, brevi frasi a matita, quali Jasočka, e gli scherni rivolti a Cristo? Oppure Non chiedere nulla! triste riferimento ad uno dei “comandamenti del campo”, che ammoniva: “Non credere a nulla, non sperare in nulla, non domandare nulla”. Il 19 febbraio del 1932, Valentina era stata condotta a Bijsk, in Siberia, dove resterà pochi giorni per lavorare all’osservatorio meteorologico della cittadina. Ella si trova a vivere, pur sotto il controllo del regime, una condizione migliore del marito, ma entrambi sono consapevoli di trovarsi sotto lo sguardo vigile dei censori del campo e sentono minata la possibilità di scrittura, arrivando a esprimersi anche in codice.

Il carteggio a due voci è intervallato da alcune lettere dei genitori di Valentina, Tat’jana e Michail Sokolov, che premurosi scrivono alla figlia e a suo marito con il cuore a pezzi. Valentina tenta in ogni modo di consolare il marito: “Mia gioia, mio cielo azzurro, chiaro, infinito, in questi giorni osservo la gente vivere e mi dico, è straordinario quello che ci ha donato la vita…Per quanto sia insopportabile quello che vedo, mi basta sentire in me la nostra vita sempre presente affinché la mia anima si rassegni e accetti tutto senza timore. Perché è tutto o niente! Jasočka, poco importa il dolore, l’essenziale è che risplenda nei secoli la nostra «Gioia per l’eternità». Perdonami se dico così grandi cose con parole così inadatte” (pag. 87).

Aleksej Losev nel suo studio. Dal documentario _Losev_ (1989) di Viktor Kosakovskij

E così i coniugi Losev trovano rifugio uno nell’altra, entrambi trovano la forza di resistere nella verità della fede. La speranza nella vita espressa da Valentina sembra riecheggiare quella stessa che il grande scrittore Dostoevskij aveva scritto in una lettera al fratello, mentre stava per essere condotto in Siberia a scontare i suoi anni di deportazione forzata, sulla base della condanna ricevuta per partecipazione a società segreta con scopi sovversivi:

“La vita è dappertutto, la vita è in noi stessi e non fuori di noi. Accanto a me ci saranno sempre degli esseri umani, ed essere uomo tra gli uomini e restarlo sempre, in nessuna sventura avvilirsi o perdersi d’animo: ecco in che cosa consiste la vita, ecco il suo compito” (Dostoevskij, I demoni, Garzanti, 2008, pag. XII).

Aleksej Losev nel suo studio, 1961

Aleksej e Valentina si riuniranno, anche se per un breve periodo, alla fine di luglio del 1932 a Belbaltlag, un campo correttivo di lavoro sito lungo la direttrice del canale Belomorkanal. Poi, nell’ottobre dello stesso anno, Aleksej diventa “lavoratore libero”, sebbene solo nominalmente. Oltre un anno dopo, nell’ultima lettera tra quelle pervenute e conservate in archivio, il grande filosofo torna a sfogarsi con la moglie, dalla quale è ancora dolorosamente diviso: “Tuttavia mi rendo conto fino a che punto in questi anni mi sia inselvatichito e mi sia abbandonato al degrado fisico. Non ho voglia di rifarmi il letto, né di disfare il sacco, né di pulire i miei vestiti sporchi di fango, né di andare alla banja; penso sempre che tanto in ogni caso dovrò morire su questo mucchio di letame!” (19 settembre 1933).

Aleksej Losev, Valentina Loseva “La gioia per l’eternità. Lettere dal gulag (1931-1933)”.

 

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