Andrea Nicastro

NicastroBuongiorno, signor Nicastro, la ringrazio per aver accettato questa mia proposta di colloquio.
 
Le vorrei porre innanzitutto una domanda generica sulla sua carriera di giornalista di guerra, posto che lei approvi tale termine, risultato sgradito o impreciso ad altri suoi colleghi.
(N): Come forse sai, ho recentemente pubblicato un volume, Nassiriya Bugie tra pace e guerra, Editori Riuniti, nel 2006.
Il tentativo era quello di accostare il solito resoconto giornalistico della vicenda alle immagini girate dallo stesso giornalista. Cioè il tentativo di sfruttare le potenzialità della tecnologia, le riprese con delle telecamere molto piccole e leggere, quindi di sfruttare tutta la tecnologia digitale, che ha permesso a me di inviare dei reportages visivi filmati che sono andati sul Corriere online, in competizione con le grandi reti televisive.
Nel 1991 Peter Arnett per trasmettere i fuochi di artificio su Baghdad aveva un’attrezzatura che pesava due tonnellate e mezzo, era questo l’impegno tecnologico che bisognava avere per una trasmissione satellitare, per le riprese. Passati appena dieci o dodici anni, mediante una telecamerina da 300 grammi ed un computer da mezzo chilo, più un telefono da altri 200 grammi – in totale sono due chili, tre chili – riesci a trasmettere via satellite un buon minuto di immagini.
 
Intende il telefono Thuraya?
(N): Il Thuraya, sì, anche altri il Neera, ancora meglio, che dispone di un modem collegato…Con quei sistemi è stato possibile sfidare i grandi network con una tecnologia leggera.
Il tentativo fatto in quel libro, di cui rivendico, come dire, la primogenitura, è stato il fatto di integrare alla figura di giornalista “scrivente” anche le riprese. Quindi la multimedialità in prima linea.
 
Come sa, recentemente il suo collega Capuozzo ha dimostrato una certa insofferenza per il termine inviato di guerra, giornalista di guerra, come se nel vostro lavoro contasse solo la guerra ed il resto delle notizie non fosse importante.
Lei, da questo punto di vista, come si colloca?
(N): La guerra è un evento molto particolare, in cui le qualità e le attenzioni del giornalista devono essere le stesse rispetto al tempo e al luogo di pace: la verifica delle informazioni, il tentativo di avere più fonti da incrociare, il normale abc del giornalista. Però, questi valori vanno applicati in un contesto dove il pericolo è maggiore, quindi si rendono necessarie maggiori accortezze. Non credo esistano una specificità o una specializzazione di corrispondente di guerra, forse qualcuno ne ha fatto una professione, ma bisogna essere attenti nel conoscere quali sono i luoghi, i pericoli, bisogna muoversi con accortezza, ma non esiste una specificità del giornalista di guerra. Conoscere un po’ di nozioni di pronto soccorso… Non è neanche necessario, secondo me, saper riconoscere subito il tipo di aereo che bombarda per fare un buon reportage di guerra.
Il giornalista troppo specifico, troppo tecnico, che ti descrive il calibro della cannonata, tutto sommato non è capace di realizzare un miglior servizio di un altro che invece va a cercare di capire da chi è stata sparata quella stessa cannonata.
 
Parlando dei rischi e del pericolo, secondo lei le guerre in Iraq ed Afghanistan hanno segnato una svolta?
(N): Secondo me sì, perché si è passati da una fase – tipo guerra dei Balcani – in cui ci si era resi conto in modo eclatante che il giornalismo, quindi l’informazione dal fronte, erano in grado di condizionare decisioni politiche e l’orientamento dell’opinione pubblica. Questo non è un fatto nuovo, ma in un mondo così farcito di informazioni, così denso di riflessione, di quantità di informazioni che arrivano dai media.
Il caso della guerra nei Balcani è stato clamoroso, perché gli albanesi si sono addirittura tassati per riuscire ad avere al loro servizio delle società di pubbliche relazioni che vendesse le loro ragioni all’opinione pubblica. Organizzavano il viaggio dei giornalisti dietro la prima linea. La differenza della guerra nei Balcani, negli anni ’80 e ’90, era che siccome il fronte dell’opinione pubblica non interno ma anche internazionale, all’Onu, l’opinione pubblica mondiale doveva decidere più o meno l’intervento. C’era dunque stato questo cambiamento.
In Iraq ed in Afghanistan, con la grandissima importanza assunta dall’estremismo islamico, cioè dall’internazionale islamica di Bin Laden, il passaggio è stato ancora diverso. Il ragionamento era semplice. A noi terroristi, a noi guerriglieri, a noi islamici non interessa più parlare all’Occidente. Vogliamo parlare al nostro pubblico, quindi dobbiamo sgombrare il campo da qualunque testimone. Da qui è derivata la tecnica dei rapimenti, da qui la tecnica degli omicidi, degli assalti, cioè del mancato rispetto per la stampa che è diventata obiettivo. Proprio perché uno degli obiettivi politici e propagandistici dell’internazionale di Bin Laden è quello di non avere altre voci sul campo, non avere testimoni.
Questa condizione particolarmente difficile e pericolosa, secondo lei, porterà ad una fattiva riduzione della possibilità d’investigazione del giornalista?
(N): Lo ha già portato, per la guerra in Iraq ed in Afghanistan lo ha già causato in modo netto.
Se le prossime guerre porteranno ad avere questo tipo di asimetria nella necessità di comunicare, allora si è capito come sgombrare il campo dai testimoni, come hai visto anche nel caso Mastrogiacomo. L’accusa imputatagli non era solo quella di spia, era anche di essere fazioso, ‘Voi giornalisti occidentali venite e non raccontate la verità. Noi vogliamo che si racconti la nostra verità’, chiaramente. Quindi, se da una parte qualche ragione ce l’hanno, perché esistono giornalisti con dei pregiudizi negativi nei confronti del movimento islamico, del movimento di resistenza integralista, d’altro canto..
Quindi dal punto di vista di questi combattenti la difficoltà è di avere un’informazione a loro favore. Hanno rinunciato ad averla, perché hanno rinunciato ad entrare in dialogo con la nostra cultura, i nostri valori: libertà, pluralismo, difesa delle opinioni differenti, tutte cose che vengono cancellate. Bisogna uniformarsi, per essere molto grezzi, alla sharia: se tu non sei musulmano già sbagli, già parti col piede sbagliato, quindi non ti accetto, non sei un interlocutore, io voglio soltanto i miei interlocutori. Il resto ne consegue.
Dal punto di vista di Bin Laden c’è stato inoltre un salto di qualità, c’è stato il fiorire di un’impressionante industria mediatica al servizio di Al Zawahiri, con società di produzione di video, con società di produzione di siti specifici, quindi un proliferare di informazione autogestita, che si rivolgeva non a me, giornalista occidentale, bensì a chi era già convinto e ha solo bisogno di una documentazione, di una spinta in più per aderire alla lotta, alla jihad.
Lei condivide l’opinione del suo collega sul fatto che questi video, specialmente quelli più cruenti dei sequestri, dovrebbero essere monitorati, trasmessi il meno possibile in televisione, un po’ come hanno fatto in Francia nel caso dei sequestri?
 
(N): No, per me no, per me l’informazione è prioritaria: che si veda un bambino morire di fame, per me è una notizia, che si veda qualcuno sgozzato, rimane una notizia.
Il limite deve essere quello del buon gusto, delle fasce protette, però secondo me è fondamentale che esista la possibilità e non l’obbligo di accedere all’informazione, per garantire la libertà ed il pluralismo. In assenza di questo si rischia la censura. La forza della nostra cultura è proprio quella della libertà, del pluralismo, il fatto di conoscere anche l’altro.
Il fatto che il giornalismo diventi un filtro per impedire il passaggio di conoscenza, questo in assoluto è sbagliato. Che poi ci siano buone intenzioni, questo lo capisco e si può discutere caso per caso, ma in assoluto è sbagliato. La decapitazione dell’ostaggio, violenza gratuita e terribile, giusto, non lo trasmetto nel Tg di prima serata, ma magari lo trasmetto, tagliando al momento opportuno, nel programma di approfondimento delle 23.30 dove si fa una riflessione molto più seria.
Ed io nel testo lo racconto, devo raccontarlo, perché secondo me è informazione, perché bisogna sapere fin dove arriva l’altro e perché. Non devo mostrare l’immagine del bonzo che si brucia per protesta, perché fa troppo orrore ed è scandaloso che quest’uomo bruci immobile, perché è una cosa veramente rivoltante?
O non devo mostrare l’immagine del bambino che muore di fame con gli occhi pieni di mosche? Ma stiamo scherzando?
I rapporti con le autorità militari, civili, locali, come sono, come possono essere?
Il controllo delle informazioni in modo particolare è molto pesante, marcato ?
 
(N): Dipende, dipende dalle situazioni. In Afghanistan il controllo delle informazioni da parte dei mujaheddin del comandante Massud prima dell’invasione di Kabul era un controllo molto lasco perché non erano in grado di esercitare… Non avevano organizzazione per esercitare questo controllo. Per esempio non potevano sapere quello che lei scriveva qui in Italia.
Avevano un servizio di traduzioni, ma non avevano il controllo. Non erano in grado di mettere accanto ad ogni giornalista uno spione, un controllore che gli impedisse di andare a parlare con quella famiglia di profughi piuttosto che di contadini, scontenta del trattamento del comandante Massoud piuttosto che simpatizzante per i talebani.
Non avevano la possibilità. In Iraq c’erano le due modalità, invece, ma solo fino ad un certo punto. Le modalità che io ho sperimentato – ti parlo di quello che ho sperimentato – erano quella italiana e la modalità americana. Gli americani erano molto più organizzati. Se eri embedded c’erano regole rigidissime, tanto è vero che alcuni giornalisti che hanno trasmesso immagini che hanno poi provocato un ritorno negativo per l’unità o la compagnia presso la quale loro erano embedded, sono stati espulsi dalla stessa compagnia, cioè si è esercitata una censura a posteriori, evidentemente come monito nei confronti di tutti gli altri.
E’ un contratto, dove si rispettano delle regole. Sì, però sono regole che impediscono la libertà. Perché se un soldato americano spara ad un uomo ferito, se l’operatore trasmette le immagini e poi questo cameraman viene espulso dalla compagnia, tutti gli altri cameramen penseranno bene se trasmettere o meno immagini di crudeltà commessa dai soldati americani nei confronti dei civili, perché rischiano di perdere il posto di lavoro. La censura che è stata anche applicata, secondo me in un momento di delirio americano, dalla stessa compagnia televisiva, che ha licenziato il cameraman che aveva filmato quelle immagini.
Un caso di autocensura, quindi.
(N): In questi anni il patriottismo americano ha raggiunto dei momenti parossistici. Il cameraman ha fatto il suo lavoro. Esatto, però ha fatto male, ha dato fastidio all’autorità e quindi anche all’audience, che si è trovata a dover tifare contro i proprio soldati.
Nel quadro italiano è stato un po’ diverso, all’inizio e lo è ancora oggi, perché siamo meno organizzati, abbiamo menoesperienza, non per buona volontà, perché siamo meno organizzati. Quindi gli embedded nei campi italiani avevano la possibilità anche di uscire e di confrontare le notizie. Quindi, riassumendo: io mi faccio raccontare dal giornalista- soldato, dal giornalista in divisa, dall’ufficiale della pubblica informazione la sua verità, e poi esco, parlo- libero, indipendente da ogni pattuglia militare, fucili, elmetti, giubbotti – con civili iracheni, piuttosto che con una controparte politica irachena, piuttosto che con esponenti della rivolta armata irachena e metto a confronto le due informazioni. Semplicemente, ci sono stati dei lunghi periodi in cui i campi italiani erano diventati una sorta di albergo protetto – si dormiva in tenda come i soldati, si mangiava alla loro mensa, gratis peraltro, però si aveva la possibilità di fare i giornalisti, nei confronti dell’autorità militare e nei confronti di quanto veniva fuori.
Ora, gli italiani, siccome hanno una scarsa capacità di controllo e decisionale, hanno deciso progressivamente di limitare l’accesso dei giornalisti alle loro basi. Quindi la scelta non è stata: di organizzarsi con il contratto – come dicevi tu – da embedded, come gli americani. E’ stata: ‘Mi spiace, non c’è posto, mi spiace non abbiamo voli, mi spiace non si può, e mi spiace in questo periodo il Ministero non ammette giornalisti, e mi spiace è un momento difficile’.
I momenti difficili sono durati anni, il periodo in Iraq dopo il rapimento Sgrena, è durato un anno e mezzo di blocco della presenza dei giornalisti.
Che giustificazioni le davano?
 
(N): Il Ministero non voleva, non c’erano giustificazioni: il Ministero non voleva.
Poteva andare in Iraq il fotografo che aveva eseguito lavori per lo Stato Maggiore, il giornalista della rivista ‘nostro esercito onnipotente che ci piace tantissimo’, l’altro giornalista super schierato, mentre la stampa indipendente, da Libero a Liberazione, non è stata ammessa, per quattordici, quindici mesi. In Afghanistan la stessa cosa: voglio parlare, voglio andare a vedere cosa fanno i soldati italiani prima del decreto di rifinanziamento della missione in Afghanistan? ‘E mi spiace non c’è posto, e mi spiace il Governo ha rifiutato i voli, e no, non si può perché mancano le autorizzazioni’.
Al di là di questi problemi che ho ben compreso, normalmente, se lei volesse partecipare ad un conflitto in qualità di embedded, con le nostre truppe…
(N): Ma cosa stai dicendo: gli italiani non fanno conflitti… Gli italiani al limite, al limite si difendono! (Ride).
..Quali sono le procedure, lei a chi si deve rivolgere?
 
(N): Al Ministero dello Stato Maggiore, a cui fai domanda. Il giornalista freelance lo fa per conto proprio, il giornalista del giornale lo fa per conto del giornale.
Invece se volesse partecipare nello stesso ruolo con una truppa americana piuttosto che britannica, è la stessa cosa?
(N): Stessa cosa, al Pentagono. Al Ministero della Difesa…
 
Alcune domande. Dopo la strage di Nassiriya l’opinione pubblica italiana, secondo lei, ha modificato in qualche modo o sensibilmente la sua inclinazione verso il conflitto? E dopo il nostro ritiro?
 
(N): Secondo me si tratta di momenti diversi. Il 12 novembre 2003, la strage di Nassiriya ha costituito un momento, secondo me, assolutamente storico, in cui per la prima volta dalla Seconda guerra mondiale gli italiani si sono sentiti vicini alle loro Forze Armate. Le manifestazioni all’Altare della Patria, quell’enorme corona di folla a Roma per i funerali delle vittime hanno davvero costituito un momento straordinario per le Forze Armate italiane. Si è detto: sono vittime innocenti, sono andati lì per aiutare. E qualcuno, cattivo, li ha voluti ammazzare. Sono vittime innocenti, sono bravi.
Cosa diversa invece – con il tempo – quando le cose sono cambiate, quando l’Iraq è andato in cancrena. Col il tempo, è scattata una valutazione politica verso l’opportunità della missione, piuttosto che non verso la qualità e l’impegno dei soldati. I soldati e l’esercito in quanto tale hanno mantenuto una connotazione positiva: sono andati lì per aiutare, tutto sommato non sono dei Rambo impazziti dell’epoca della Somalia che attaccano ai testicoli i morsetti delle batterie…
E’stata un’operazione di marketing, di propaganda dell’esercito, pienamente riuscita. La si è tentata dai tempi dei Balcani fino all’Iraq, mentre adesso è un po’ in crisi perché la decisione politica soverchia quella militare. I militari non riescono più a vendere il prodotto esercito con l’efficacia dei primi tempi, perché non riescono più a mostrare risultati. Quando in Bosnia mostravi il soldato che accarezzava il bambino, e poi effettivamente lo scontro finisce, questi non si scannano più, il ruolo positivo dell’esercito come esercito di pace diventa tangibile.
Quando in Iraq vai, cerchi di fermare un conflitto ma non ci riesci e questi continuano a spararti addosso, tu muori, io avrò anche simpatia per te come vittima, ho dei grossi problemi a considerare la missione in cui tu sei impegnato come una missione di pace, perché effettivamente non riesci a portare pace. Quindi la percezione delle Forze Armate il 12 novembre 2003 secondo me è cambiata in modo positivo, c’è stato un passo importante, dalla fine della Seconda guerra mondiale; in quel momento io segnerei in qualche modo la riconciliazione tra il popolo italiano e il suo esercito che l’aveva abbandonato nelle mani dei nazisti alla fine della Seconda guerra mondiale ed aveva fatto le cose peggiori, ed era identificato come il cattivo. Il quel momento l’esercito è ridiventato buono, è diventato il nostro esercito, per cui io piango i nostri soldati. Il problema però è usare l’arma militare: come la usiamo? Nei Balcani l’abbiamo usata bene, ecco, i risultati sono lì, pronti a spararsi di nuovo, però tutto sommato abbiamo calmato la situazione. In Iraq e in Afghanistan, o mannaggia, sembra che le cose stiano andando male, allora portiamo a casa i nostri ragazzi, non portiamo a casa quei figli di…
Rispetto all’Iraq, per quanto concerne la guerra in Afghanistan, la percezione della nostra opinione pubblica è secondo lei diversa?
(N): E’diversa perché è nata diversamente, perché ha dato meno problemi, perché l’Afghanistan è stata una guerra di polizia per ripulire il mondo da un cancro fatto da questa incredibile organizzazione terroristica che aveva creato lì la sua base di addestramento. Cioè, io ho visto schedari nei sottoscala delle ville di Al Qaeda a Kabul, c’erano schedari, centinaia, centinaia di metri pieni di schede individuali di Abdul Ali, marocchino, con la pagella, per la lotta a coltello 7, per la fabbricazione di esplosivi 8 e mezzo, note speciali: si segnala per missioni suicide.
Centinaia, centinaia, centinaia di metri di schedari, alti fino al soffitto, pieni ognuno di centinaia di migliaia di potenziali bombe umane, cioè un’organizzazione che andava demolita: è nata così, e cosa è diventata? Guerra di occupazione, abbiamo portato sviluppo, abbiamo aiutato le genti: facciamo i conti e scopriamo che non lo abbiamo fatto, quindi la percezione dell’opinione pubblica piano piano sta cambiando. In Iraq il cambiamento è stato più rapido perché in Iraq la degenerazione da ‘andiamo a liberare, aiutiamo questi poveri oppressi a rimettersi sui loro piedi’ funziona a livello di ragionamento, aiutiamo, va bene aiutiamo, ci costa 250 milioni di dollari in due anni? Va bene, più o meno, non è neanche una manovrina , cioè proprio briciole, briciole delle briciole, del bilancio statale italiano, quindi si può fare, possiamo essere generosi, facciamo l’elemosina, siamo nella comunità internazionale come partner, bene, facciamolo pure.
Quando però comincia a costare e i risultati non ci sono, allora subentra la valutazione politica da parte dell’opinione pubblica che ci arriva piano, piano. In Afghanistan, ancora adesso si discute: c’è chi ha ben in mente quelle ragioni iniziali e chi invece tende ad enfatizzare il fatto che anche in Afghanistan come in Iraq l’insuccesso della ricostruzione è clamoroso.
Quindi: la presenza dei militari, a che cosa serve? A garantire la ricostruzione? Si potrebbero usare quelle risorse in modo diverso? C’è un altro modo che non sia quello dei blindati e dei moschetti, per aiutare quelle popolazioni a non ricadere nella rete delle sirene dell’estremismo? Vogliamo veramente farlo? Sono tutte domande politiche, a cui i soldati non devono rispondere, i soldati obbediscono a quello che ordina loro il governo. Secondo me, l’opinione pubblica italiana sta valutando l’operato del governo, non quello dei soldati.
Lei prima parlava della telecamera, del suo lavoro fatto col computer: l’accesso alle telecomunicazioni immagino sia molto importante per questo tipo di giornalismo, sia per quello della televisione. Tale accesso può essere usato, quindi negato come ricatto, come ostracismo da parte delle autorità militari?
(N): Non lo so, forse nel caso delle autorità curde, nel nord del Kurdistan iracheno. Ci sono quattro o cinque alberghi dove possono stare gli stranieri con un minimo di sicurezza, e questi quattro, cinque alberghi ti avvertivano degli accessi a Internet favorevoli dal punto di vista economico, garantivano – parlo al passato perché l’esperienza risale ad otto mesi fa, quindi se oggi è cambiato qualcosa non lo so, però in questa fase di guerra in Iraq è stato così – garantivano degli accessi a Internet quindi economicamente convenienti, o dalla stanza o da business centre di questi alberghi, cioè dove dovevano stare i giornalisti.
E i provider di questi accessi Internet chiudevano e negavano alcuni siti, non davano la libertà di navigazione. Chi ne ha risentito di più evidentemente sono stati i giornalisti arabofoni, cioè dell’Iran, perché loro avevano effettivamente la capacità di navigare in Internet alla ricerca dell’altra verità, un giornalista che maneggia delle lingue occidentali meno, proprio per quello che dicevo, l’organizzazione che sta dall’altra parte, che sta nell’ombra a mettere le bombe non ha interesse a parlare con noi, vuol parlare solo ai suoi potenziali adepti.
Ma da parte invece delle autorità militari? Gli americani… Sì, anche gli americani, ti danno accesso a dei provider che sono quelli dell’esercito e quindi censurati. Detto questo però, né l’uno né l’altro impediscono di avere accessi diretti, personali. Quindi se io porto la mia antennina e stop, nessuno me l’ha sequestrata. Chi mi impedisce di arrivare con dei mezzi propri per ricevere e trasmettere informazioni proprie, per esempio sono le autorità cubane, va beh la Corea del Nord, alcuni regimi estremamente occhiuti e oppressivi. Addirittura i telefoni satellitari non fanno entrare? Vietato. Accidenti. Quindi nemmeno le comunicazioni con la famiglia, per dire… Si passa attraverso le linee di terra. Che però saranno sicuramente controllate, registrate. Mentre invece nei campi militari io non ho mai avuto problemi ad usare la mia antenna.
Ora volevo chiederle: ho cercato i suoi articoli sul Corriere.it e ho visto che trattavano di Cecenia, Kosovo, Serbia, Afghanistan, Iraq. Nella sua esperienza di giornalista esiste un denominatore comune a tutte queste esperienze, questi diversi teatri bellici?
(N): Ah, un comportamento da tenere? Non so, attenzione, scrupolo, dico una banalità. Dal punto di vista personale invece, denominatore comune di queste esperienze di guerra è vedere come la guerra riesca a trasformare la vita e l’interiorità degli uomini. Una persona assolutamente normale in periodo di pace, può essere trasformata in un mostro o in codardo o in un essere spregevole dalla paura. La paura, la paura trasforma le persone.
Una domanda invece più generale. Secondo lei nei conflitti futuri il giornalismo sarà più orientato verso l’embedded o come definiva il suo collega Battistini, quello dei cani sciolti, individuali, quelli che girano da soli nei paesi, a piacimento o comunque autonomamente?
(N): Secondo me il tentativo da parte dei protagonisti, degli attori dei conflitti è quello di controllare l’informazione. Sempre più si renderanno conto di quanto è importante l’informazione, quindi la propaganda, la percezione che del conflitto si ha all’esterno e quindi cercheranno di controllarlo. E’ sempre stato così, piano piano ci si attrezza, è come per guardie e ladri, si ispessisce la corazza ma il ladro riesce a trovare la fiamma ossidrica più potente oppure la serratura è più grossa ma il ladro è capace di forzare anche quella.
I telefonini nella guerra nei Balcani sono stati una rivoluzione perché non si doveva più passare dall’ufficio telegrafico piuttosto che dalla linea internazionale disponibile, e quindi controllabile, ma si aveva l’accesso diretto al mondo esterno e venivano saltati una serie di controlli perché ti chiamavano direttamente sul telefonino. Internet e gli accessi satellitari sono stati un ulteriore passo in avanti. Tu mi hai chiesto cosa hanno fatto gli Stati Uniti: nella guerra in Afghanistan, gli Stati Uniti hanno controllato il sistema satellitare Thuraya e in alcuni momenti topici l’hanno disturbato, cioè interrotto. Come per il GPS. Come per il GPS, ma hanno disturbato il satellite, quindi chi doveva utilizzare il Thuraya, non poteva trasmettere. Ovviamente chi doveva ordinare tramite il Thuraya l’assalto dei suoi venti straccioni contro la postazione mujaheddin non poteva farlo ugualmente, ma hanno prevalso in questo caso le ragioni belliche, le necessità belliche rispetto al rispetto della libertà di informazione o roba di questo genere, lo ritengo comprensibile, voglio dire: hanno la tecnologia per difendersi meglio, per impedire all’avversario, al nemico di comunicare, si sa che le comunicazioni sono fondamentali in battaglia e le disturbo: francamente posso farlo, perché non farlo?
Lei è stato l’unico italiano a vedere il bunker di Saddam coi suoi occhi. Mi può raccontare ?
 
(N): La tana di Saddam: ecco, questo è stato questo un esempio di come la tecnologia leggera possa permettere addirittura di battere i grandi network. Le mie immagini della tana sono arrivate sul circuito Internet mondiale, quindi attraverso il corriere, un tre, quattro ore prima della Cnn e della Bbc, perché io invece di dover per forza arrivare a Baghdad e trasmettere il feed sul satellite grosso a pagamento che usano le televisioni, io ho potuto farlo col telefonino Thuraya in mezzo all’autostrada nel deserto fra Tikrit e Baghdad.
Loro correvano a 300 all’ora, io mi sono fermato e in mezz’ora ho trasmesso. Ora che loro sono arrivati, hanno montato, hanno aspettato il feed giusto, io avevo già le immagini da due, tre ore in rete. Piccola soddisfazione, che non conta niente, però è il segno di come la tecnologia permetta un’informazione diffusa, in qualche modo c’è più democrazia, è il teorema, il media sei tu, l’idea di YouTube, in questo caso veicolata e mediata da uno che di professione fa il giornalista e lo fa per una testata che ha una credibilità e che esercita un controllo sulla credibilità del giornalista.
Quindi non è il testimone dilettante che mette a disposizione degli altri la sua esperienza, ma è qualcuno che dovrebbe essere in grado di esercitare un controllo critico di quello che vede e quindi trasmettere un materiale già rifinito. Come diceva lei, i grandi network avranno imparato qualcosa da questo avvenimento E infatti loro dal 2004, 2003 – ne avevano pochissimi che funzionavano male – dal 2004 inizio 2005 hanno iniziato ad usare in modo massiccio i videotelefoni, collegando tre antenne Neera, si è sviluppato un software che permette al giornalista di stare fermo col microfonico davanti di far vedere la sua faccia, di far vedere qualcosina dietro sgranato, ma di avere un equipaggiamento che non è un camioncino tipo Ford Transit, che non è più le due tonnellate e mezzo ma è un camioncino Ford Transit che deve arrivare sul posto dove sparano, gli bucano, lo rapinano, ne fanno di tutti i colori, bastano tre valigette che occupano lo spazio di un tower case, di una Samsonite rigida. Magari tra 10 anni sarà una roba così …?
Magari fra 10 anni sarà una roba così e trasmetteremo in videotelefono, via satellite un’immagine magari più definita di quella, quindi da una parte aiuta a diffondere le informazioni, dall’altra però ci sono chiaramente le contromisure di chi deve controllare l’informazione.
Signor Nicastro, io ho finito e la ringrazio. Grazie per la sua collaborazione e per l’ospitalità.

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