La fotografa Dorothea Lange a Milano

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Al Museo diocesano di Milano la mostra di Dorothea Lange, una pioniera della fotografia documentaria americana negli anni cruciali della crisi economica. È aperta fino al 19 ottobre

di Carlo Rotondo

La prima sezione è dedicata alle grandi città, San Francisco, New York, i primi scatti che la Lange realizza al di fuori del suo studio di ritratti, in giro per le strade cittadine. Le sezioni centrali espongono le foto degli anni dal 1935 al 1939, l’esodo di massa provocato dalla siccità, tonnellate di polvere che ricopre ogni cosa, i campi agricoli devastati, la fuga di un’intera generazione travolta, i centri di raccolta dei lavoratori migranti. In mostra anche un’ampia sezione di fotografie molto interessanti, ma poco conosciute perché censurate fino ad anni recenti: sono quelle sul trattamento disumano toccato in sorte ai cittadini americani di origine giapponese, chiusi in campi di concentramento, a seguito dell’entrata in guerra degli Stati Uniti. La mostra è arricchita di un bel documentario girato dalla nipote di Dorothea Lange, Dyanna Taylor, utile per cogliere anche nelle parole della fotografa il senso del suo lavoro.

GLI INIZI COME RITRATTISTA

Scattava ritratti Dorothea, d’improvviso le era venuta la passione della fotografia; la vita era stata fin da subito dura, a sette anni la poliomielite l’aveva segnata per sempre, il piede destro deformato la costringe a camminare male; a 12 anni, il padre abbandona lei, la madre e Martin, il fratello più piccolo. Decide di frequentare una scuola per imparare, la Clarence H. White School of Photography in città a New York, lei che era nata e cresciuta poco lontano, a Hoboken, nel New Jersey; per mantenersi faceva la finisher, ritoccatrice sui negativi e sulle stampe, presso i fotografi già affermati, tra gli altri quello di Arnold Ghente, famoso per aver ripreso il terremoto in California del 1906. Dorothea impara in fretta perché solo due anni dopo essere approdata a San Francisco apre per conto suo uno studio che diventa presto ben frequentato, da gente facoltosa che chiede ritratti di famiglia e aziendali; è qui che impara a interagire con i soggetti, conversa con i clienti, anche parlando di sé stessa, per metterli a proprio agio durante le sedute di ripresa e rendere le pose più naturali e spontanee; un’abilità che le tornerà utile in seguito quando farà fotografie per la strada. Un giorno nel suo studio entra Maynard Dixon, un artista visuale, di vent’anni più vecchio di Dorothea, noto per i suoi iconici paesaggi western fatti di nativi americani, canyon e mandrie di cavalli allo stato brado. Si sposano nel 1920; all’inizio viaggiano insieme negli Stati del sud ovest e Dorothea fa le sue prime fotografie in esterno alle popolazioni indiane delle riserve, ma è soprattutto con il suo lavoro di ritrattista che nei successivi quindici anni la famiglia si mantiene e cresce con l’arrivo di due bambini.

LA CRISI DEGLI AGRICOLTORI

La crisi economica è alle porte anche in California e fra qualche anno arriveranno masse di persone, lacere e affamate, in cerca di lavoro nel paese dell’eden. Dorothea rimane impressionata: “la discrepanza tra quello che vedevo nel mio studio di ritratti e quello che accadeva in strada era più grande di quanto potessi accettare”, sente la necessità di documentare, informare, vuole: “alzare lo sguardo e ritrarre la vita perché le buone fotografie devono essere piene di mondo”. Con un ritmo frenetico gira per la città e in serata ha già stampato le foto; le espone nello studio a favore della sua ricca clientela che non può fingere di non vedere e di fronte a immagini potenti che isolano e mettono in piena luce i soggetti, è costretta a soffermarsi e a riflettere sul da farsi, le immagini, così evocative ed esplicite valgono più di tante parole. Le code alla mensa dei poveri, file di disoccupati all’ufficio di collocamento; un uomo anziano è appoggiato a una staccionata, appare stanco e disilluso, sullo sfondo uomini col cappello, in attesa; Dorothea gira loro intorno alla ricerca di una migliore inquadratura; senza tetto, addormentati sulle panchine, per terra; dettagli di gambe femminili che indossano calze rammendate più volte; una manifestazione di protesta con i poliziotti a cavallo che sorvegliano minacciosi, un oratore macilento urla qualcosa nel microfono.

Dorothea Lange Mostra Museo Diocesano Milano 2025

LE INQUADRATURE RIVOLUZIONARIE

Questa nuova visione da parte di Dorothea, forse spaventa Maynard, è sicuramente meno finalizzata all’estetica di quanto faccia lui, ma le inquadrature di Dorothea restano molto accurate nel posizionamento dei soggetti e nella ricerca della luce. I rapporti coniugali diventano tesi, il marito è sempre più in viaggio, da solo e per mesi interi. La crisi economica rende anche a loro la vita difficile; decidono di vivere per un po’ separati, ognuno nel proprio studio, divorziano nel ‘35 e poche settimane dopo, Dorothea si risposa con Paul Taylor. Sono coetanei, ma soprattutto sentono una profonda sintonia, grazie agli interessi in comune e a un comune sentire verso le vittime della depressione; Paul l’aveva conosciuta nel ‘34, in occasione di una mostra delle fotografie di Dorothea a Oakland; è un economista, sociologo, esperto in politiche agrarie che lavora per il governo. Porta le fotografie di Dorothea a Washington e le mostra a Roy Strycher; è il capo della Divisione Informazione della Farm Security Administration e ha promosso il più importante progetto documentario della storia sulla difficile situazione dei braccianti agricoli, finalizzato allo stanziamento di fondi statali per le aree colpite dalla crisi.

Nel 1933, Roosevelt si insedia alla Casa Bianca e per contrastare la povertà vara il programma di riforme sociali ed economiche del New Deal.

L’INGAGGIO PER LA FARM SECURITY ADMINISTRATION

Dorothea è ingaggiata dalla FSA per raccogliere documentazione fotografica nelle aree agricole dove maggiore è la crisi, insieme a lei oltre 40 fotografi, tra gli altri, Walker Evans, Russell Lee, Gordon Parks, Arthur Rothstein che produrranno circa 250.000 negativi. È un giornalismo visivo, impegnato, che cerca di cogliere le contraddizioni socio-economiche del suo tempo; in grado di smuovere le coscienze con un coinvolgimento emotivo e far maturare nella pubblica opinione la spinta all’azione, in nome di un principio di giustizia sociale. Ogni estate fino al 1939 Paul e Dorothea attraversano gli Stati del sud-est del Paese, lungo la costa della California e nel Midwest, documentando la povertà rurale e lo sfruttamento dei mezzadri.

LA NUVOLA DI POLVERE

Fino ad allora le tecniche agricole erano basate sull’aratura profonda del terreno che rimuove radicalmente le coltivazioni preesistenti, migliora l’aerazione del terreno e ne aumenta l’infiltrazione dell’acqua; tuttavia, ciò impedisce allo strato superficiale di trattenere l’umidità e lo rende eccessivamente asciutto. La siccità che negli anni ‘30 devastò le ampie pianure della fascia centrale degli Stati Uniti, dal North Dakota al New Mexico, seccò il suolo e il terreno; la polvere sollevata e trasportata via verso est dai forti venti primaverili della regione in grandi tempeste nere, le cosiddette black blizzard, arrivò a oscurare il cielo anche per più giorni di seguito, insinuandosi dappertutto, e tutto mangiando e corrodendo, legno, auto e mezzi agricoli, manufatti e strumenti di lavoro. Milioni di persone restate senza casa, furono costrette a fuggire in direzione della fertile California e delle grandi città industriali del nord. Le Highways attraversano gli Stati, le strade dell’infinito esodo a ovest provocato dalla Dust Bowl, la nuvola di polvere: “ la prossima volta prova il treno” recita lo slogan della compagnia ferroviaria, invitando al relax, mentre due migranti camminano verso Los Angeles, trascinando una valigia; sono i cartelloni pubblicitari che fotografa Dorothea e che ironia vuole ha dipinto il suo ex marito, Maynard Dixon.

IL METODO DI DOROTHEA

In autostop o i più fortunati, con la poca benzina rimasta nel serbatoio quasi a secco, su auto ridotte all’essenziale, dopo che sono stati venduti i pezzi come ricambi, stracariche di borse, valige e con una capra al seguito. In un’immagine, un carro con oggetti di casa alla rinfusa e un rotolo di linoleum da cucina, simbolo della speranza di rimettere su nuovamente casa. Dorothea prende con molto cura appunti: “Prima di fare domande racconto tutto di me e poi riporto su un quaderno le parole esatte che mi sono rivolte”. Un metodo che le permette la raccolta delle osservazioni e che si accompagna spesso anche alla messa in posa dei soggetti e a riprese molto ravvicinate, ma ricche di dettagli, per stabilire una relazione più profonda. Le immagini di Dorothea furono pubblicate sui giornali di tutto il paese e divennero l’icona universale della crisi e della depressione economica degli anni ‘30, nelle quali si specchiava un’intera società. Furono fonte d’ispirazione per artisti e scrittori come John Steinbeck che scrisse delle vicende di Tom Joad e della sua famiglia nel libro Furore e ne usò ventidue per la sua raccolta di articoli, The Harvest Gypsies, sul giornale di San Francisco.

MIGRANT MOTHER

La sua opera più nota, Migrant Mother, pubblicata nel 1936, ritrae Florence Owens Thompson; nel 1960, Lange raccontò la storia della fotografia. Il lavoro era terminato, rientrava a casa a Berkeley: “Guidando verso nord, pioveva, le borse della macchina fotografica erano pronte sul sedile posteriore, un cartello lungo il bordo della strada diceva: “campo di raccoglitori di piselli”, non volevo fermarmi, ma poi chiesi di tornare indietro (29 miglia, ndr). Vidi e mi avvicinai alla madre…..le spiegai la mia presenza, ma ricordo che non mi fece domande. Scattai cinque foto sempre più vicine dalla stessa direzione (con la Graflex 4×5 ndr) Mi disse che aveva trentadue anni…raccontò che vivevano di verdure e di uccelli uccisi dai bambini. Aveva appena venduto gli pneumatici della sua auto per comprare del cibo. Sedeva lì in quella tenda a tettoia con i suoi figli rannicchiati intorno a lei…” Un giornale di San Francisco pubblicò un articolo sulle condizioni del campo con le foto della Lange, ebbero una risonanza straordinaria, scatenando la corsa alle donazioni e lo stanziamento di aiuti governativi per evitare la carestia. Cosa c’era di meglio che una madre con in braccio i suoi bambini, simbolo della resistenza alla lotta quotidiana contro la fame per smuovere le coscienze intorpidite dei cittadini più abbienti.

OBIETTIVO RAGGIUNTO

L’obiettivo era stato raggiunto e ciò, al di là della retorica, era quello che contava, tuttavia la Lange fu licenziata dalla FSA perché aveva manipolato la foto, cancellando dal negativo un dito della madre che sporgeva dal palo al quale la sua mano era aggrappata. Un errore imperdonabile per chi faceva dell’oggettività documentaria il suo dogma e che minava la credibilità del programma e costituiva un precedente pericoloso. La fotografia è tra le più riprodotte al mondo ed è riproposta ancora oggi nelle versioni più disparate. La mostra prosegue con alcuni scatti dedicati al tema della segregazione razziale; dopo la fine della schiavitù sì era sviluppata la mezzadria, ma ogni contadino sia bianco che nero finiva per rimanere fortemente indebitato col proprietario del campo a causa dei prezzi bassi dei prodotti coltivati e della necessità di ripagare non solo il terreno in uso, ma anche i mezzi e l’attrezzatura per il lavoro e inoltre, l’acquisto dei prodotti di prima necessità avveniva negli spacci di proprietà del padrone del campo ai prezzi fissati da lui. Le condizioni del Sud in cui persiste una situazione di profondo razzismo e in cui la segregazione razziale si aggiunge come ulteriore condizione di sfruttamento  a quella dell’emarginazione sociale.

Le foto della Lange si soffermano sui piccoli gesti a rimarcare i rapporti di forza tra lavoratori e proprietari e la sottomissione degli afroamericani al potere dei bianchi. Le mani, gli sguardi che denotano il possesso, i soggetti subalterni ritratti nella loro dignità di essere umano.

Un selezione del materiale fotografico e documentale raccolta dalla Lange e da Taylor confluirà in un libro: An American Exodus, ricco di testimonianze dirette da parte dei lavoratori migranti, pubblicato nel 1939 con l’obiettivo ancora una volta di mostrare a tutti cosa accadeva alle fasce sociali più disagiate e colpite dalla crisi e sollecitare il governo a prendere misure di contrasto alla povertà.

GLI ULTIMI ANNI

Siamo a ormai agli anni della Grande Guerra e all’avvenimento decisivo che convincerà gli Stati Uniti all’ingresso nel conflitto mondiale; nell’inverno del ‘41 il Giappone attacca Pearl Harbor e Roosevelt ordina che tutti i cittadini americani di origine giapponese lascino le proprie case in California, Washington e Oregon. Dorothea è ingaggiata dall’esercito per mostrare all’opinione pubblica il buon trattamento riservato ai cittadini deportati; il progetto prevede che circa 120.000 persone siano internate in campi di prigionia, sorvegliati dalle guardie e recintati dal filo spinato. Un’intera comunità sradicata con i rastrellamenti. Dorothea fotografa, ancora una volta con un intento documentario e di conservazione della memoria e ritrae sguardi sbalorditi, persone identificate da targhette appuntate sui vestiti, l’abbandono forzato di casa, lavoro, scuola. Code di persone, in attesa con i loro bagagli, di essere caricate sui pullman, poco dopo essere state forzatamente strappate alle loro abitazioni; il viaggio, l’arrivo nei campi, il giuramento di fedeltà alla  bandiera. Un bambino legge un fumetto americano, due adolescenti vestono con abiti moderni e la cintura dei pantaloni ha la fibbia che riporta la scritta California.

Un mezzadro guarda minacciosamente l’orizzonte come a gridare vendetta. Dorothea quasi involontariamente ha di nuovo mostrato la realtà per quello che è: alle autorità non piace. La licenziano ancora una volta e requisiscono le sue foto. Solo nel 2006 saranno svelate nel libro postumo Impounded, sequestrato. Negli ultimi anni di vita Dorothea fa in tempo a preparare l’allestimento della mostra retrospettiva che il MoMa le dedica e che sarà inaugurata tre mesi dopo la sua scomparsa l’11 ottobre del 1965.

Le sue fotografie continuano a emozionarci perché sono attuali e raccontano molto anche del nostro presente, il dramma dei diseredati, dei migranti in fuga dalla guerra, dalla carestia e nei loro occhi il disperato bisogno di poter nutrire ancora la speranza di un futuro.

Carlo Rotondo

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