Toni Capuozzo

CapuozzoBuongiorno signor Capuozzo, la ringrazio per aver acconsentito a questa intervista.
 
Una domanda, possiamo dire, concernente la proprietà di linguaggio: giornalismo di guerra è un termine che, come ho visto sui giornali l’anno scorso, non le è proprio. Lei diceva appunto che il giornalista è un giornalista e deve raccontare le storie ovunque capitino, in patria o all’estero, di guerra e non.
Io volevo chiederle semplicemente: quali sono le differenze, la metodologia, le abitudini, il tipo di esperienza che intercorrono tra un giornalista ed un inviato di guerra.
 
(C): Le differenze sono moltissime, come è diversa una società in pace da una società in guerra, insomma sono totali come differenze.
Credo invece che esista una letteratura del giornalismo di guerra, che serve un po’ a raccogliere la più bella corrispondenza di guerra. Ma non mi piace quando questa definizione viene affibbiata come un’etichetta, intanto perché ha un inevitabile sapore un po’ retorico, che evoca il rischio, le esperienze estreme, insomma non mi piace quell’aspetto retorico. Soprattutto ho sempre cercato di evitare accuratamente di fare un conflitto dopo l’altro, mi sono sforzato, appena finiva un’esperienza intensa, di seguire delle storie normali. Questo perché credo sia molto importante non solo per il tuo equilibrio personale, bensì per saper raccontare bene un conflitto, essere una persona normale, che abbia consapevolezza della normalità della vita, e della normalità di chi lo sta poi ad ascoltare, di chi lo legge.
Ho sempre cercato di evitare di diventare uno specializzato, uno che passa da un conflitto all’altro, non solo per quell’elemento un po’ caricaturale, che fa sembrare d’essere un mercante d’armi!, uno che senza la guerra non ha ragione di campare. No, anche perché sono convinto che puoi raccontare, puoi continuare a non considerarlo il tuo panorama abituale, quindi a impegnarti a viverla come un fatto eccezionale, con la sua drammaticità, la sua tragedia, però serbando dentro di te anche la percezione dei suoi angoli di normalità, se continui a essere una persona normale.
Ecco, non ho mai voluto diventare qualcuno che si senta a suo agio in un conflitto. Penso che per raccontare bene un conflitto a delle persone normali, che stanno cenando, che sono sedute in salotto, devi conservare traccia della normalità.
 
La seconda domanda è più tecnica. A proposito del giornalismo di guerra, inteso come mestiere, i suoi colleghi della carta stampata mi hanno parlato di unilateral e di embedment. Le sue considerazioni, pro e contro, visto che l’embedment è molto criticato. Che cosa ne pensa?
 
(C): Sul giornalismo aggregato alle truppe di qualche Paese sussite un luogo comune, come succede spesso in queste cose. Viene visto come un giornalismo al servizio dello Stato maggiore. Io non concordo, credo anzi che sia un’opportunità in più.
Naturalmente uno sa benissimo che se l’unica fonte fosse quella di un giornalista al seguito delle truppe rischieremmo uno sguardo unilaterale, ma se tu ad esempio hai un giornalista a Baghdad e uno al seguito delle colonne che avanzano, hai due punti di vista. E questo credo che in definitiva risulti più forte della censura, più forte di ogni altra querelle, in base naturalmente alla personalità del singolo giornalista.
Spesso questi luoghi comuni sono molto diffusi. Persino il Segretario nazionale del Sindacato dei giornalisti ha parlato contro gli embedded, ormai embedded è diventato equivalente a dire giornalismo asservito. Quando c’era Saddam tutti i giornalisti, italiani compresi, che andavano a Baghdad erano embedded nella struttura del controllo dittatoriale di Saddam.
Non tutte le cose scritte allora denunciavano la brutalità o la spietatezza della dittatura di Saddam. Io sono entrato in Iraq il giorno in cui crollò il regime del Baath, ma il visto non l’avevo perché ero sulla lista nera del Ministero dell’informazione di Saddam. Ero stato in Iraq ed avevo raccontato delle cose che a loro non erano per niente piaciute.
Non dico che tutti gli altri avessero scritto testi che al contrario fossero piaciuti, però quello era un giornalismo embedded molto più compromesso di tanti altri che poi hanno fatto giornalismo al seguito degli americani. Concretamente. Quando, tranne nel primo periodo a Nassiriyah, abbiamo tutti fatto giornalismo embedded perché dormivamo alla base White Horse, con gli italiani, uscivamo con gli italiani, facevamo giornalismo embedded, non c’era altra possibilità.
Non si poteva più stare in un albergo, non ci si poteva muovere per conto proprio se non a costo di rischi che rendevano impossibile il lavoro. Quando sono stato in Iraq, a Kabul no, ma in Iraq ho dormito accanto a dei militari italiani e ho fatto giornalismo embedded.
Certo, per carattere, perché non sono un disciplinato, mi sarebbe piaciuto starmene al di fuori e girare, non ‘oggi andiamo qua, oggi andiamo là’. Ma per i tempi che avevo, per la situazione che c’era, questo non era possibile. Così ho cercato di fare il mio lavoro stando in mezzo ai soldati.
Ho scritto cose che pativano di ovvi limiti, poiché la sera non me ne stavo in mezzo agli afgani ma in mezzo ai miei connazionali in divisa, però per me era un punto di vista interessante. Sarei stato più felice se avessi potuto fare una settimana mimetizzato tra la popolazione, il problema è sempre lì, insomma, risiede nella personalista del giornalista, nel suo modo di fare giornalismo, non in chi ti accompagna. Certo, puoi andare in fabbrica con il datore di lavoro che ti mostra i reparti, così come puoi andarci col Consiglio di fabbrica o puoi aspettare gli operai all’uscita della fabbrica. Sono dei punti di vista differenti.. Però lo stesso giornalismo può fare tutte e tre le cose in modo dignitoso.
 
Volevo chiederle delle differenze riscontrabili nei rapporti verso i giornalisti da parte delle varie truppe, per esempio americane, britanniche o italiane.
 
(C): Guardi, nessun militare di nessun Paese dirà mai delle cose che vadano contro l’interesse nazionale e che possano farlo incorrere in sanzioni militari, ma questo è ovvio, sono esattamente i limiti che tu hai. Io dico che se un giornalista segue sempre l’Inter ed un giorno scrive delle cose che all’Inter non vanno a genio, credo che prima o poi gli renderanno la vita difficile.
Per fortuna non è che uno è aggregato in via eterna ad un reparto, tu ci vai, loro ti offrono delle opportunità, è ovvio che chi ti offre un’opportunità non pensi che tu finisca per parlar troppo male del lavoro che fanno.
Il problema è se tu sei convinto di fare un cattivo lavoro sarà meglio che non ci vada. Se pensi invece che si stia facendo una cosa buona, è ovvio che questa opportunità la usi e poi passi a fare altro. Tutte le volte che sono andato a Nassiriyah, nei limiti del possibile, ho notato sicuramente che col tempo si usciva di meno, perché c’erano più rischi. I soldati non vogliono mettere a rischio il giornalista, ed è un pò assurdo mettere a rischio le vite dei militari per proteggere un giornalista che va a curiosare.
Direi che anche oggi c’è una certa riluttanza delle Forze armate a consentire il lavoro dei giornalisti al loro fianco. Ma credo sia perché vogliono tenere un profilo basso, perché c’è una maggioranza di Governo che sulle ammissioni è piuttosto divisa. Così non ti dicono ‘vieni a Kabul a vedere cosa facciamo’, preferiscono tenere un profilo basso, ma non è contro il giornalismo, questo mi sembra anzi una specie di precauzione nei confronti della politica.
 
Tutte queste vittime che purtroppo si sono avute negli ultimi conflitti, in Iraq, in Afghanistan, tra i giornalisti, gli operatori, secondo lei non denotano un rischio di imbrigliamento del vostro lavoro?
 
(C): Questo non ha a che fare con la storia del giornalismo, è che il mondo è cambiato.
Diciamo che fino a che il mondo era diviso tra due superpotenze che in qualche modo controllavano tutto, l’informazione era tirata per la giacchetta da una parte o dall’altra. E’ ovvio che la guerriglia nicaraguense ti portava con sé per mostrarti che loro erano bravi, è ovvio che gli americani o l’esercito salvadoregno ti diceva ‘vieni con noi che ti mostriamo quanto siamo bravi’.
Oggi succede il contrario proprio perché l’informazione non viene vista più come un’opportunità di comunicare ad altri i tuoi contenuti, i tuoi comportamenti, i tuoi valori, bensì come una parte in campo. Si spara sulla Croce Rossa, figurarsi se non si spara sui giornalisti…
Bin Laden non si fa più intervistare dai giornalisti, loro hanno un modo di comunicare diverso, ovvero i filmati. Quindi il giornalismo non viene visto più come una parte terza da lusingare, da accarezzare per tirarla dalla propriaa parte. Viene visto come altro, come nemico e quindi come tale sequestrabile… Questo in parte ha cominciato ad avvenire, dopo la caduta del muro di Berlino, già con le guerre sporche dei Balcani, sono morti una sessantina di giornalisti. Perché erano guerre improvvisamente disordinate, combattute non da ufficiali che avevano fatto l’Accademia e conoscevano le convenzioni, ma guerre sporche in cui il giornalista stava sulle palle perché poteva essere visto come uno che aiutava il nemico. In particolare, dopo le guerre legate al fondamentalismo, il giornalista viene percepito come una ghiotta opportunità di guadagni, di scambio politico e comunque come appartenente al nemico.
E comunque è certo che le vittime continuano a dirti ‘Racconta al mondo quello che sta succedendo’ sperando che questo aiuti a cambiare, ma Al Qaeda non ti dice ‘Vieni, ti mostriamo noi’, ha la sua informazione, i suoi canali, parla con i suoi media, non ha bisogno delle mediazioni. Così tu giornalista sei piuttosto intuito non solo come occidentale, bensì come infedele, uno che può aiutare la propaganda del nemico e quindi ostile. E come elemento ostile vieni trattato.
 
Un’altra domanda: il controllo delle informazioni da parte delle autorità in un teatro di guerra, delle autorità locali o ad esempio di quelle americane in Iraq, britanniche in Afghanistan, secondo la sua esperienza questo controllo è sempre molto forte, molto rigido? Si può parlare di ostracismo o addirittura di censura nei confronti dei giornalisti ?
 
(C): No, guarda, è ovvio che tutte le istituzioni tendono a filtrare le notizie, a controllarle, perché oggi la guerra è spesso una guerra dell’informazione. Conta di più una battaglia vinta sui media che una battaglia vinta con i carri armati in uno scontro.
Però è un continuo confronto di forze diverse. Per esperienza mi sembra che – soprattutto su questi piani – la maggior parte dei fatti vengono a galla. Basta pensare a quel marine americano che uccise a sangue freddo un prigioniero iracheno, un terrorista non più in grado di nuocere. Era un giornalista americano che mandò in rete le immagini, un giornalista embedded. Basterebbe solo questo episodio a dimostrare che tutte le preoccupazioni dei santoni dell’informazione, che quasi mai frequentano i luoghi di guerra, si preoccupano da Roma, dall’università, da Milano, sono ampiamente infondate. La verità tende a venire a galla, quando parliamo di fatti, di battaglie combattute sul terreno.
Molto più difficile è il controllo. La censura tende a vincere quando parli di informazioni che sono che per loro natura riservate, dove è più difficile replicare: pensiamo all’arsenale atomico iraniano, se c’è o non c’è, su quel piano è molto difficile che il singolo giornalista riesca a reperire le notizie, i fatti, che sfuggano all’uno o all’altro. Gli iraniani che ad esempio sono interessati a nascondere il loro programma nucleare al resto del mondo… E’ molto più difficile che il cronista sul campo riesca a raccogliere degli elementi. Lì il controllo dellenotizie è molto più forte. Ma su una battaglia, su un conflitto aperto… Il fatto, la mobilità, l’anarchia, la disciplina di tanti giornalisti è sempre più forte di ogni controllo dell’apparato. Insomma tutto quanto tende a venire fuori, magari in ritardo, ma viene fuori.
Caso mai a volte succede il contrario, una vulgata giornalistica, un’esagerazione giornalistica ha la meglio sull’informazione seria. Faccio l’esempio della battaglia di Jenin: La Repubblica titolò 500 morti, poi i morti invece erano neanche una sessantina, che sono comunque sempre morti, di cui una buona metà erano israeliani. E’ rimasto il titolo Il massacro di Jenin, perché nei media si è affermata quell’immagine. Tutti hanno scritto ‘L’assedio della Natività’, io ero lì dentro, si poteva chiamare l’occupazione della Natività, piuttosto.
 
Una domanda pratica: sempre dal punto di vista del teatro bellico, comunque all’estero, quali sono le differenze più importanti di un operatore televisivo nei confronti della stampa? Perché finora ho parlato solo con giornalisti della carta stampata.
 
(C): Ci sono molti giornalisti della carta stampata che si muovono con rigore, però tu puoi sempre scrivere quel che ti pare… Puoi anche sentire cose che un altro ti dice, la telecamera invece deve arrivare vicino a quello che succede. Robert Capa lo ha detto benissimo: non sono buone o cattive fotografie, sono fotografie scattate da vicino o da lontano.
 
Dicevamo, quindi, le differenze tra la carta stampata e la televisione…
 
(C): La televisione consiste nell’andare vicino alle cose. Io non credo che la televisione affossi la carta stampata, anche se è ovvio che ha un potere enorme, però la obbliga a privilegiare l’analisi, la spiegazione dei retroscena. Se andiamo a Falluja, io ed il giornalista di Repubblica o del Corriere, è chiaro che io mostrerò quello che succede a Falluja, o cercherò di mostrarlo, mentre lui il giorno dopo deve far capire che è stato anche lui sul posto. Ci deve essere questa vivacità nello scritto, però deve condirlo di elementi di spiegazione, di retroscena, l’ha già visto la sera prima il telespettatore. Capisci?
 
Ma certamente. Andrea Nicastro, del Corriere della Sera, mi ha detto che, a proposito del suo rapporto con le truppe che lo ospitano, girava senza nemmeno la macchina fotografica, con solo un taccuino, ed aveva tutta la massima libertà. Gli operatori di tutto il mondo, armati di telecamera o di macchina fotografica, erano invece visti con maggior sospetto.
 
(C): Certo, questo vale per ogni situazione. Ad un posto di blocco, il fatto che la telecamera sia accesa spesso fa comportare diversamente quelli che sono ai posti di blocco, sei più vistoso.
Noi spesso facciamo dei gruppi misti, per dividere le spese, per confortarci con la compagnia, ma ci sono dei tempi diversi. Spesso il giornalista della carta stampata è un po’ più anonimo, meno vistoso, la troupe è per sua natura più vistosa. Questo influenza in qualche modo la realtà, se c’è qualcuno esagitato diventa più esagitato, se c’è qualcuno che nasconde qualcosa, nasconde ancora di più se c’è la telecamera. E’ ovvio che la telecamera non entra in punta di piedi, anche se prova ad entrare in punta di piedi.
Nello stesso tempo, quando andavamo in giro insieme… C’è l’intervista, la cosa breve, poi ti sposti a fare altro, mentre il giornalista della carta stampata può fermarsi un’ora in una casa a raccogliere un racconto che diventerà di dieci righe, noi no, insomma sono due modi di lavorare diversi. E’ chiaro che la telecamera fa sempre più paura a chi non vuole apparire, il taccuino è più mimetico, quello sì che è un lavorare in punta di piedi, dove conta solo il tuo aspetto fisico, dove importa se sei evidentemente uno straniero oppure no. Con la telecamera invece è come andare in giro con la bandiera, ‘siamo dei media’.
Invece le moderne tecnologie di comunicazione e rilevamento, come i satellitari GPS, che importanza hanno nel vostro lavoro? Impedire l’accesso a queste tecnologie, ad esempio alla comunicazione satellitare, può essere una forma di ostracismo ?
 
(C): Sì, io ero a Belgrado durante la guerra – chiamiamola col suo nome – che l’Italia ha combattuto insieme agli altri Paesi contro la Serbia, ci hanno sequestrato i telefoni satellitari. Chi? L’esercito. Il nostro? No, quello iugoslavo. Io in quel caso ero un giornalista di una potenza nemica, ero lì, ce li hanno sequestrati. Spesso i satellitari, proprio per il fatto di essere meno controllabili di altri, sono visti con sospetto. Tutte le tecnologie in genere arricchiscono la capacità di comunicazione, di comunicazione da qualunque punto. I satellitari sono molto importanti, quindi sono una risorsa preziosa. E’ tutto più fresco, più immediato.
E’ ovvio che se tu potessi – esistono già simili attrezzature, ma sono molto costose – andare in Kurdistan senza aver bisogno di tornare a Mosul per mandare delle immagini, sarebbe una cosa perfetta. Ci sono delle attrezzature, solo che occorrono dieci minuti di trasmissione per spedire un minuto di filmato… La qualità è bassa. Tutto questo è qualcosa che favorisce tremendamente chi fa informazione, chi fruisce dell’informazione, e come tale viene visto come elemento di libertà. Nei posti dove sussiste la censura – ripenso a Belgrado – prima di spedire il pezzo, un programma, doveva essere analizzato prima della spedizione.
 
Capisco. Se lei ad esempio da Mosul volesse trasmettere al telegiornale della sera qui in Italia, di quanti operatori, di quanto materiale avrebbe bisogno?
(C): Siamo appoggiati su strutture già esistenti, la televisione locale, tu vai e da lì spedisci.
A Baghdad c’erano delle agenzie, come la Reuters, e tu spedisci tramite loro. Solo la CNN ha delle strutture autonome. Dipende poi da dove è in grado di arrivare, se come noi è chiusa in un albergo di Baghdad o se può mandare una parabola a Falluja, ma ciò significa avere delle persone che stanno lì, e quindi come tali sono sequestrabili, insomma entrano in gioco una serie di elementi non tecnici ma politici. Arriverà il giorno in cui tu riprenderai e manderai i filmati al satellite con un’antennina. E’ palese che questa sia una cosa che spaventerà chi vuole controllare le informazioni, e che nello stesso tempo costituisce un punto di forza.
 
Quali sono le misure di sicurezza più basilari da adottare nei teatri bellici oggi, in Iraq come in Afghanistan?
(C): E’ un po’ la fortuna che decide, devi cogliere l’attimo, cambiare da luogo a luogo, di momento in momento, da un lato devi essere molto mimetico, che non vuol dire vestire come un improbabile contadino, bensì significa essere veramente confondibile con la popolazione locale, essere poco vistoso. Per questo motivo ti aiuta molto avere del personale locale.
Quindi le scritte ‘Press’, gli elmetti, i giubbotti anti-proiettile …
 
(C): Io non ho mai messo quei giubbotti da inviato di guerra, se potessi seguire una guerra in camicia rosa a fiori lo farei!, e qualche volta l’ho anche fatto per distinguermi, per segnalare che non c’entravo proprio niente, un tentativo disperato e modesto di non essere parte in causa, di essere ‘parte altra’. A me è successo di avere la macchina con scritto Press e mi sparavano apposta per quello, nei Balcani, l’abbiamo tolta, ci siamo accorti che attirava gli spari invece di stornarli.
Non è possibile scrivere un manuale, ci sono tanti piccoli suggerimenti, linee di condotta, però la prima è che ogni guerra è diversa dall’altra e ogni giorno è diverso dall’altro, quello che fino ad un giorno prima non era pericoloso può diventarlo, e quello che era pericoloso invece può non esserlo più. Bisogna essere molto irregolari perché le guerre oggi sono irregolari, quindi stabilire un decalogo di comportamenti rischia di essere traditore rispetto ad una situazione che magari è notevolmente cambiata, è diversa.
Le procedure: se lei vuole recarsi per la sua emittente in un paese in guerra, ad esempio l’Iraq o l’Afghanistan, quali sono le procedure? Deve presentare una domanda, accreditarsi…
 
(C): Dipende da Paese a Paese. Oggi per l’Iraq serve un visto, l’Iraq è ancora bandito per le troupes televisive italiane, occidentali. Ci va qualche giornalista della carta stampata, però stanno in albergo trincerato dentro la Zona Verde, contando su uno stringer che va fuori, raccoglie le notizie e te le porta e tu fai il pezzo dall’albergo. Per la televisione… Potresti fare i collegamenti stando sulla terrazza. E’ come pretendere di raccontare le borgate romane stando chiuso in Vaticano, in un Vaticano fermamente sigillato. Oggi non sono tanto le difficoltà burocratiche che rendono difficile andare in Iraq, quanto le difficoltà a lavorare liberamente sul terreno. Nell’Iraq di Saddam – io ero al confine che aspettavo, appena sono scoppiate le guerre di confine sono entrato, perché non mi avevano dato il visto – la concessione dei visti è anche un elemento di ricatto. Se tu vai in Iran ti danno il visto, se scrivi delle cose che possono non piacere, la volta dopo non te lo danno.
E’ un elemento pesante di condizionamento.
 
Quindi questo dipende se questi Stati hanno degli appoggi in Italia…
 
(C): E’ l’Ambasciata stessa che ha un addetto stampa che segue, segnala…
 
Ma i talebani all’epoca, i mujaheddin, erano così attrezzati?
 
(C): L’Afghanistan di allora era poco organizzato. Invece, sotto questo punto di vista l’Iraq di Saddam era ben organizzato, aveva i suoi servizi qui a Roma, che studiavano le cose, che facevano le pagelle dei giornalisti.
L’ultima domanda è sul giornalismo di guerra, devo per forza di cose definirlo così…
 
(C): Sì, sì, esiste il giornalismo di guerra. (Ride)
 
Suona un po’ riduttivo…
 
(C): Per me esiste, si potrebbero scrivere antologie sul giornalismo di guerra. E’ il fatto di definire una persona come giornalista di guerra, che mi sembra riduttivo. Il giornalismo di guerra esiste, come esiste il giornalismo di mafia… E così via.
 
Ad ogni modo, il giornalismo di guerra. Secondo lei, è possibile tracciare un paragone tra il giornalismo internazionale e quello italiano? Come definirebbe, lei, il nostro giornalismo?
(C): E’ un buon giornalismo, secondo me se vai a vedere le singole persone.
Il nostro è un Paese che ha molti inviati di guerra, molti inviati che hanno seguito guerre, conflitti, e lo hanno fatto bene. Pagano alcuni difetti del Paese: uno è un certo innegabile provincialismo, per cui anche quando ci si occupa di esteri è tutto sempre letto in chiave politica italiana, per cui se dici una cosa in un certo modo può far comodo al Centrodestra, se ne dici un’altra al Centrosinistra, è sempre vissuto in modo molto locale. Tu leggi spesso delle cose che sono scritte a migliaia di chilometri di distanza dall’Italia, ma che hanno una lettura quasi parziale, in patria.. Questo equivale al trattare anche un conflitto lontano come un capitolo di una tensione permanente che c’è in Italia.
Questo è un modo davvero riduttivo ed ingiusto di pensare.
Un altro difetto, a mio avviso, è quel conformismo politico, quella scorrettezza politica che caratterizza il giornalismo italiano: un giornalismo poco spregiudicato, che tende a confortare le attese, a creare i suoi miti, a cercare di non deluderli, a coltivarli. Questo vale per moltissime situazioni, è un giornalismo un po’ conformista. Questo per me più che responsabilità dei singoli giornalisti, è responsabilità delle testate, delle direzioni e persino dell’opinione pubblica che legge sempre la politica estera come una specie di prolungamento della politica italiana, per cui…
Si sprecano i luoghi comuni sull’America, su Bush, sullo stesso Medio Oriente, sul conflitto di Israele contro gli Hezbollah.
Se poi vai a vedere le corrispondenze, trovi un giornalismo che raccontava quel conflitto come la guerra di un esercito potente che non riesce ad aver ragione del piccolo…
Secondo degli stilemi narrativi ovvi, che sono forse quelli che il pubblico si aspetta, però sicuramente non è un giornalismo spregiudicato ed anticonformista.
Però in generale coi singoli c’è un giornalismo che è migliore di altri e quelli che sono i suoi difetti diventano a volte delle virtù nel capire al volo una situazione politica. Intendo dire che noi italiani essendo abituati ad una politica estenuante, siamo più inclini ad intuire. Il più ignorante degli italiani conosce i meccanismi, le contraddizioni, i retroscena della politica, siamo molto meno ingenui del giornalismo anglosassone, del giornalismo di altri Paesi, che però è più spregiudicato. Non a caso fu il giornalismo americano ha tirar fuori Abu Ghraib o le scene da Falluja.
A raccontare le cose uno a volte finisce per essere molto isolato. Un esempio? Io non ho mai taciuto il fatto che il sequestro delle due Simone fosse stato annunciato da un bombardamento a colpi di mortaio contro la loro sede pochi giorni prima. ‘Un Ponte per’ naturalmente negò. Insomma, è una cosa così che è rimasta molto tra le righe, una specie di riverenza nei confronti di una organizzazione, una Ong in quel caso, c’è sempre una specie di conformismo che impedisce di dire certe cose.
Signor Capuozzo, io la ringrazio sinceramente per la sua cortesia e per l’apporto che lei ha fornito a questa mia serie di interviste. Le auguro buon lavoro e buona serata.

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