Il Corriere della Sera, dall’edicola alla Rete
Intervista a Marco Pratellesi, responsabile del sito del quotidiano milanese
di Serenella Mattera
La redazione di Corriere.it è in via Solferino. Nel palazzo milanese dove da più di cent’anni si fa il primo quotidiano italiano. Una redazione come le altre, all’apparenza. Uno stanzone ingombro di scrivanie, monitor dei computer accesi sul flusso delle agenzie, qualche televisore sintonizzato sui canali all news. Telefoni che squillano. Il vociare dei giornalisti.
«La professione rimane sempre la stessa» dice Marco Pratellesi, caporedattore del Corriere della Sera e responsabile del sito. La sua scrivania è in fondo alla stanza. Dietro le spalle, una pila di quotidiani. Il tavolo ingombro di libri e fogli. Davanti a sé lo schermo di un computer, cui lancia continue occhiate. Perché anche nel tempo di un’intervista, il giornale che Pratellesi guida è come se andasse continuamente in stampa. Un flusso ininterrotto di notizie, 24 ore su 24.
Ma allora qualcosa cambia rispetto a un quotidiano…
«Non la professione. I criteri etici, morali e qualitativi del lavoro rimangono sempre gli stessi. Certo, il modo di lavorare è diverso, cambiano tempi e organizzazione».
Com’è strutturata la redazione di Corriere.it?
«Siamo 16 giornalisti. Molto pochi, in proporzione ai 370 del Corriere della Sera. Ma quello dell’on-line è uno dei pochi settori in espansione. Anche il New York Times e gli altri grandi quotidiani internazionali tendono a ridurre il numero di cronisti della carta stampata, ma allo stesso tempo aumentano gli organici delle loro redazioni on-line. Quindi in qualche modo una sorta di travaso».
Come convivono quotidiano e sito di una stessa testata? Si pone il problema di decidere dove pubblicare prima una notizia?
«Sì, certo. Si valuta di volta in volta, a seconda della natura della notizia, delle sue caratteristiche, se quella che può essere un’esclusiva del giornale sia meglio darla subito on-line, o piuttosto aspettare la mattina seguente, per farla uscire insieme su Internet e nelle edicole».
E come sono i rapporti con i colleghi del cartaceo?
«Uno dei nostri obiettivi principali è stato quello di far percepire a tutti che il sito è il Corriere della Sera e che quindi non ci sono distinzioni tra chi lavora per la carta e chi lavora per Internet. Così in maniera progressiva, senza grandi proclami o traumi, un certo numero di giornalisti del Corriere ha iniziato a scrivere abitualmente anche per il sito. Si è instaurata una buona collaborazione: molti hanno affinato la tecnica per l’on-line e a noi adesso arrivano pezzi con l’indicazione dei link, e la segnalazione di video e foto. L’obiettivo non è un’integrazione dove tutti facciano tutto, ma dove una buona parte di giornalisti sia in grado di lavorare sia per il sito che per la carta, saltando indifferentemente dall’uno all’altro media».
Quanto sono importanti per Corriere.it i contenuti audio e video?
«La multimedialità è stato proprio uno dei punti di maggiore sviluppo del sito negli ultimi due o tre anni e probabilmente è destinato ancora a crescere. Ne è nato un pubblico di lettori-spettatori che interagiscono, con opinioni, commenti e suggerimenti».
Cosa comporta questa interattività?
«Crea tra i lettori un senso di comunità, grazie al dialogo tra di loro e con il giornale. Non solo attraverso i forum, i blog e i sondaggi, ma anche attraverso il meccanismo dei più letti, con cui i nostri utenti possono sapere cosa gli altri hanno apprezzato di più sul sito, da cosa sono stati più incuriositi».
E voi ne siete influenzati?
«È proprio questo l’altro aspetto. Nella comunità di Corriere.it ci siamo anche noi e l’interattività ci consente probabilmente di fare un giornale più vicino al lettore. Ci sentiamo meno padroni delle notizie, ma più “servitori” degli utenti attraverso di esse. Abbiamo sviluppato una sensibilità per cui sappiamo in anticipo se una notizia è destinata ad avere successo. Spesso uno dei nostri limiti, in quando giornalisti, è proprio quello di pensare che la gerarchia delle notizie, quello che noi riteniamo importante, sia la gerarchia del lettore. Ma noi siamo dei “mostri”, cioè siamo persone deformate professionalmente, per cui ci entusiasmiamo a volte per cose che per i lettori sono meno importanti».
Avete sperimentato forme di citizen journalism, il giornalismo partecipativo, che vede la collaborazione attiva dei cittadini?
«Abbiamo una serie di spazi. Dalla possibilità di commentare gli articoli, a quella di mandare foto o video per chi è testimone di fatti importanti. È un settore destinato a crescere, come quello dei blog: non sono fenomeni passeggeri e quindi è giusto che ci si confronti anche con essi nel tentativo di fare un giornalismo sempre migliore».
Prevedete anche forme più avanzate di partecipazione, con i lettori che ad esempio producono direttamente gli articoli?
«Le stiamo valutando, sulla base di una riflessione di risorse e benefici. In quanto testata giornalistica, abbiamo una responsabilità legale, ma anche la responsabilità di garantire ai nostri lettori una qualità più alta possibile. Perciò tutto quello che compare sul sito, nei blog, nei forum, nei commenti, è moderato. Fare un’area dove i lettori scrivono direttamente potrebbe sicuramente essere un esperimento interessante, ma per controllare tutto ci vorrebbe una struttura apposita, un dispiego di forze che va ben oltre i 16 giornalisti. Tutte le testate che hanno sperimentato cose del genere, dalla Bbc ad altri siti, si sono poi rese conto che occorrevano delle forze notevoli per accogliere i contributi degli utenti, controllarli, gestirli».
Secondo lei è verosimile che, attraverso il citizen journalism, i cittadini prendano gradualmente il posto dei giornalisti?
«Non credo che l’obiettivo sia che i cittadini si sostituiscano ai giornalisti, ma piuttosto che ci aiutino a essere giornalisti migliori. Il grande contributo del Web 2.0, dell’interattività, è che siamo controllati, criticati, stimolati nel nostro lavoro, e questo ci impone di fare scelte giornalistiche, ma anche etiche, sempre più elevate e ponderate. Del resto il Corriere costruisce la propria autorevolezza e credibilità su 130 anni di storia, durante i quali è nata nel lettore quel tipo di fiducia che fa sì che oggi quando vuole sapere come stiano le cose, vada sul nostro sito».
In Italia però, come lei stesso segnalava a gennaio di quest’anno, solo il 43% delle famiglie usa Internet. Siamo ancora abbastanza analfabeti…
«In realtà guardando ai numeri, in costante crescita, che i principali siti di news come il nostro fanno, si può essere abbastanza ottimisti. Nei giorni feriali siamo sempre oltre il milione di lettori. Il distacco tra Corriere.it e i siti di New York Times, Guardian o El Mundo, non è così ampio. Soprattutto se si considera che quelli sono in lingua inglese e spagnola, e hanno quindi un potenziale di lettori nel mondo molto più alto del nostro.
Come sempre, poi, l’Italia è a due velocità. Una parte del Paese ancora soffre di un’arretratezza nell’accesso a Internet. Pesa la carenza, in alcune zone, di strutture come la banda larga».
Quanto pensa sia importante l’accesso a Internet per lo sviluppo di una nazione?
«È fondamentale, se si considera la quantità di dati, informazioni, comunicazioni che passa attraverso di esso. Oggi rimanere tagliati fuori dalla Rete e quindi dalla possibilità di scambio a tutti i livelli che essa offre, credo che sarebbe una terribile condanna al non sviluppo».
Crede che la Rete possa anche aiutare i Paesi del terzo mondo?
«Sicuramente. La conoscenza e la condivisione della conoscenza è la prima grande fonte di potere».
Ma il Web è democratico?
«Lo è nella misura in cui offre a tutti la possibilità di accedere alla stessa informazione e di essere al tempo stesso fornitori di informazioni. È anche vero che poi al suo interno esistono forme di concentrazione fortissima. Basta vedere cosa sta succedendo nella battaglia tra Google e Microsoft».
Cosa ne pensa del MyJournal teorizzato da Nicholas Negroponte? Ognuno avrà un’informazione personalizzata, su misura?
«Io sinceramente non ci credo tanto. Si va sul giornale on-line non solo per trovare ciò che ci interessa, ma perché andando a cercare ciò che interessa a noi, entriamo in contatto con una serie di altre storie, notizie, avvenimenti, che possono sorprenderci, incuriosirci, interessarci. E darci una panoramica di quello che succede nel mondo. Credo che la formula del “my newspaper” non sia quella più adatta ai siti d’informazione, perché eliminerebbe proprio l’effetto sorpresa e l’effetto omnibus».
Come si inseriscono nel contesto sin qui delineato i giornali cartacei?
«Credo che oggi siano l’anello più delicato del sistema. Hanno sofferto il cambiamento, senza riuscire a loro volta a cambiare sulla base dei nuovi valori in campo. Questo perché per tanti aspetti il giornale ha una formula talmente perfetta che è stata utilizzata per secoli e ha sempre funzionato. È la prima volta che si trova nella condizione di doversi ripensare».
In che modo?
«Non tanto da un punto di vista grafico, come si è fatto finora col formato tabloid, il colore, l’infografica. Io credo che la grossa scommessa della carta stampata sia quella di ripensare le scelte editoriali, il modo di fare il giornale. Perché viviamo nell’era del villaggio globale, dove ci sono Internet, mille canali satellitari con le televisioni all news, tante radio, ma anche display in metropolitana e naturalmente i cellulari. L’utente oggi è immerso in un flusso di notizie e per la prima volta nella storia dell’umanità non deve andarsele a cercare. Il giornale stampato se vuole sopravvivere deve perciò tirarsi un po’ fuori da questo flusso mediatico quotidiano e offrire qualcosa di diverso, tornando alle origini del giornalismo: per strada, a fare inchieste, reportage. I giornalisti devono stare meno al desk, a filtrare notizie di agenzia, e andare fuori, a cercare ciò che ancora non esiste se non c’è un giornalista in grado di raccontarlo».
Un esempio positivo?
«Il Guardian. A me pare che sia il quotidiano che più ha capito questa necessità di trasformazione, questa necessità, nel villaggio globale, di produrre il giornale di carta tenendo presente cosa fa il sito e di pensare il sito sapendo cosa fa il giornale di carta. È quello che più si è spinto avanti in questo concetto di integrazione, che non è un’integrazione del tipo “tutti fanno tutto”, ma piuttosto dove tutti fanno quello che sono in grado di fare meglio, perché alla fine il lettore abbia il miglior prodotto on-line e il miglior prodotto quotidiano stampato».