Sacco e Vanzetti: cento anni fa il loro arresto

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«Io non augurerei a un cane o a un serpente, alla più bassa e disgraziata creatura della Terra — non augurerei a nessuna di queste creature ciò che ho dovuto soffrire per cose di cui non sono colpevole. Ma la mia convinzione è che ho sofferto per cose di cui sono colpevole. Sto soffrendo perché sono un anarchico, e davvero io sono un anarchico; ho sofferto perché ero un Italiano, e davvero io sono un Italiano […] se voi poteste giustiziarmi due volte, e se potessi rinascere altre due volte, vivrei di nuovo per fare quello che ho fatto già.» Così disse il 9 aprile 1927, l’operaio piemontese Bartolomeo Vanzetti davanti alla Corte statunitense che, dopo aver respinto tutti gli appelli, lo condannava a morte assieme al compagno anarchico, il venditore ambulante pugliese, Nicola Sacco.

La sentenza fu eseguita il 23 agosto 1927. Cinquant’anni dopo, il 23 agosto 1977, Michael Dukakis, allora governatore dello Stato del Massachusetts, riconobbe gli errori (a dirla tutta i pregiudizi) che condizionarono il processe e ne riabilitò totalmente la memoria. Nicola e Bart non avevano ucciso durante una rapina un contabile e una guardia del calzaturificio Slater and Morrill di South Braintree. Non avevano neanche usato le due pistole che furono ritrovate loro addosso al momento dell’arresto, nel maggio 1920, mentre andavano a protestare per la “morte accidentale” di un altro anarchico, Andrea Salsedo, il 3 maggio 1920. Salsedo fu trovato sfracellato al suolo alla base del grattacielo di New York dove al quattordicesimo piano aveva sede il Boi (Bureau of Investigation), dove il militante era tenuto illegalmente prigioniero ormai da lungo tempo.

Cabaret Sacco&Vanzetti_foto di Carlo Rotondo

La condanna era legata sia al terrore che, prima ancora del maccartismo, le autorità statunitensi scatenarono contro i “rossi” (ma Sacco e Vanzetti erano anarchici, non comunisti). Sia il feroce razzismo contro gli italiani, considerati (non sempre a torto), primitivi, violenti, addirittura criminali. Curioso, proprio come facciamo noi ora con gli immigrati. All’epoca la condanna suscitò proteste in tutto il mondo. Perfino Benito Mussolini intervenne a loro favore.

A cento anni da quell’arresto e dal lungo e ingiusto processo (fu perfino ignorata la confessione del detenuto portoghese Celestino Madeiros, che scagionava i due), la loro vicenda torna in teatro. Accade con un curioso cabaret (negli anni Venti del Novecento il cabaret politico, soprattutto nella Repubblica di Weimar, fu una straordinaria forma di contestazione culturale e sociale). Si intitola Cabaret Sacco & Vanzetti.

In programma al Teatro Filodrammatici di Milano dal 18 al 23 febbraio 2020, è un progetto Gianpiero Borgia che firma anche la regia. Ladrammaturgia è di Michele Santeramo. Le musiche sono Papaceccio MMC Roberta Carrieri, anche se in scena non si suona: i due attori cantano e ballano e recitano. Una fatica incredibile: sono Raffaele Braia e Valerio Tambone. La produzione è del Teatro dei Borgia. Lo spettacolo è nato sotto l’egida di Amnesty International. Una vicenda da non dimenticare. Ovviamente val la pena anche rivedere il film del 1971 di Giuliano Montaldo, con Gian Maria Volontè e Riccardo Cucciolla.

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