Gli ebrei, l’antigiudaismo e le leggi razziali

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DALLA PRIMA WINTER SCHOOL 2018-2019

PAROLA CHIAVE: RAZZA

TESTO DI ROBERTO ROVEDA 

La Chiesa e gli ebrei nel Medioevo

La storia degli ebrei in Europa e anche in Italia è segnata da elementi di discriminazione legati all’antigiudaismo, elementi che nel XX secolo si legarono al razzismo, portando così alle leggi razziali fasciste, tetro preludio per il nostro Paese alla catastrofe della Shoah. Vediamo ora di delineare fin dall’epoca medievale questi elementi di discriminazione. La presenza di comunità ebraiche nel Mediterraneo e in Europa occidentale è una costante per tutto il periodo medievale, anche se differenti nel corso dei secoli furono le caratteristiche, numeriche e di diffusione sul territorio, della loro presenza e i rapporti intrattenuti con la maggioranza cristiana. Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto vale la pena di dire immediatamente che agli ebrei che vivevano nei territori appartenuti all’Impero romano e in cui si era affermato il cristianesimo non venne riservato il medesimo destino dei seguaci delle religioni tradizionali romane o di quelle politeiste. Non venne avviata contro le comunità ebraiche una politica di conversioni forzate oppure di distruzione dei luoghi di culto come avvenuto con i pagani.

Esisteva per altro un duplice atteggiamento nei riguardi egli ebrei all’interno dell’universo cristiano. Tra il popolo e nel basso clero era diffuso un sentimento antiebraico legato al rifiuto degli ebrei si accettare Gesù come il Messia, abbracciando così quella che per i cristiani era l’unica, vera fede. Persistente era poi l’accusa di deicidio rivolta agli ebrei, considerati i primi responsabili della crocefissione di Cristo. Parallelamente, però la Chiesa operò ai suoi più alti livelli per evitare la distruzione delle comunità e dell’identità ebraica. Nella visione di san Paolo, espressa nella Lettera ai Romani, e dei padri della Chiesa, Agostino in primo luogo, gli ebrei, con il loro pervicace rifiuto di accettare la fede cristiana, dovevano restare nella società come specchio rovesciato dell’identità cristiana che andava definendosi. Erano dei testimoni della verità del cristianesimo, modelli in negativo necessari per far risaltare il modello positivo rappresentato dal cristianesimo.

Tortura dell’ebreo (particolare), affresco di Piero Della Francesca, Basilica di San Francesco (Arezzo), 1452-1466.

Questa dottrina consentiva di accettare la diversità rappresentata dall’ebraismo all’interno di quella uniformità che era, in epoca medievale, la cristianità. Allo stesso tempo però sottintendeva che la presenza degli ebrei era consentita solo perché funzionale al cristianesimo. Poneva quindi i membri del popolo ebraico in una posizione di inferiorità sociale rispetto ai cristiani, una sorta di subordinazione che trovò la sua completa espressione nella bolla Etsi Iudaeos, emanata da papa Innocenzo III nel 1205. Lo stato dell’ebreo veniva qui definito come uno stato di “perpetua servitù”, una subordinazione che consentiva la presenza ebraica in ambito cristiano.

La Chiesa quindi considerava gli ebrei testimoni della verità della fede cristiana e suoi servi e in questo senso si impegnò lungo tutto il Medioevo per garantire la loro protezione e la loro incolumità fisica contro le posizioni intransigenti e radicali di chi, in ambito cristiano, accostava i membri del popolo ebraico non più solo alla testarda reticenza a riconoscere la verità di Cristo, ma a vizi come la carnalità e l’immoralità oppure considerava la religione ebraica diabolica e idolatra.

Questa visione pregiudizialmente negativa dell’ebraismo, per esempio, prevalse nei territori orientali del Mediterraneo dove la politica teocratica e cesaropapista degli imperatori bizantini operò con decisione per la conversione al cristianesimo degli ebrei oppure per la loro espulsione dai territori imperiali. Così, alcune comunità ebraiche trovarono rifugio nei territori dell’Europa orientale non soggetti al controllo di Costantinopoli oppure, nel VII secolo, favorirono l’avanzata araba, pur di liberarsi dal giogo imperiale.

 

Gli ebrei “indispensabili”

In Occidente, gli ebrei, viceversa, intensificarono la loro presenza lungo tutti i primi secoli del Medioevo, soprattutto a partire dal IX-X secolo. Gli ebrei erano principalmente mercanti e garantivano una sorta di ponte tra i cristiani dell’Europa occidentale e gli arabi che occupavano alla fine dell’Alto medioevo tutta l’Africa settentrionale e la Penisola iberica. Così, in quest’epoca nacquero comunità ebraiche in molte aree del Mediterraneo occidentale, principalmente in Spagna, nella Francia meridionale, nella Provenza e in tutta l’Italia meridionale e Sicilia. Proprio dall’Italia meridionale nell’IX-X secolo, lungo le vie commerciali che collegavano l’Europa mediterranea all’Europa continentale, giunsero i primi ebrei nella valle del Reno, regione che in ebraico medievale era chiamata Ashkenaz e che ha dato origine al termine ashkenazita, usato ancora oggi per designare gli ebrei originari dell’Europa centrale e orientale[1].

Questo fenomeno di insediamento delle comunità in tutto l’Occidente si accentuò nel Basso Medioevo, principalmente nelle aree economicamente e socialmente più vitali. Gli ebrei divennero tra XII e XIII secolo parte integrante del tessuto urbano dei dell’Italia centro-settentrionale, della Francia e della Germania. A favorire la presenza ebraica fu una ragione molto pratica, legata alle restrizioni che la Chiesa imponeva in materia di attività bancarie e finanziarie. Il prestito di denaro era, infatti, equiparato automaticamente all’usura e quindi le attività creditizie erano precluse ai cristiani. Perciò le attività creditizie, indispensabili in una società in sviluppo economico e mercantile come era quella europea dei secoli XI-XIIIrimasero di pertinenza di ebrei. Nelle città il primo ebreo a giungere era quasi sempre un banchiere, seguito poi dalla sua famiglia e da alcuni correligionari che si dedicavano al commercio e ad attività artigianali. A questi si aggiungeva un rabbino e un macellaio, figura indispensabile per rispettare le rigorose prescrizioni della religione ebraiche in materia di macellazione e trattamento delle carni. Così nasceva, in breve tempo, una nuova comunità.

I dati a nostra disposizione sulla presenza degli ebrei in Europa in epoca medievale non sono molti. Secondo alcune stime tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo la popolazione ebraica complessiva in Europa era di circa 450 mila persone, l’l per cento circa di quella totale, stimata in circa 44 milioni. In quest’epoca, per le ragioni che vedremo più avanti, gli ebrei cominciarono a essere espulsi da alcune regioni europee. Così sappiamo che al momento dell’espulsione dall’Inghilterra, avvenuta nel 1290, i membri della comunità ebraica inglese erano 5 mila su un totale di 2 milioni di abitanti. In Francia, prima dell’espulsione del 1306, sarebbero stati 100 mila. Nel 1490, la Francia meridionale, da dove non erano ancora stati scacciati, ne avrebbe contati 20 mila. Nei territori imperiali[2] erano probabilmente 100 mila all’inizio del Trecento, scesi ad 80 mila nel 1490. Viceversa, nello stesso periodo, in Italia, in Italia, per le ragioni che vedremo sempre più avanti, passarono da 50 mila fino a 120 mila. In Spagna gli ebrei erano circa 150 mila ai primi del XIV secolo e aumentarono la loro presenza fino a 250 mila persone poco prima della lor definitiva espulsione nel 1492. In Portogallo sarebbero passati da 40 mila all’inizio del Trecento ad 80 mila nel 1490. Per dare un’idea in quest’epoca le comunità dell’Europa orientale cominciavano appena a formarsi: gli ebrei erano in Polonia 5 mila, cresciuti a 30 mila nel 1490, e 5 mila in Ungheria, dove sarebbero diventati 20 mila nel 1490[3] (Baron 1971).

Questo è un quadro attendibile della presenza ebraica in Europa, anche se bisogna dire che si trattava di un quadro segnato dalla precarietà e dall’instabilità. La storia degli ebrei europei era, anche epoca medievale, segnata da continui spostamenti e da esili volontari e, più spesso, forzati. Come detto all’inizio, la condizione dell’ebreo era di inferiorità rispetto ai cristiani e quindi la stabilità degli insediamenti ebraici era in qualche modo legata alla protezione della Chiesa, ma anche agli umori dei potenti oppure alla tolleranza o intolleranza della maggioranza cristiana. Era quindi una condizione di disagio costante, anzi di profonda sofferenza quella che era avvertita come la presenza di un corpo estraneo entro il compatto tessuto medievale.

 

Il peggioramento della vita degli ebrei nel Basso Medioevo

Insicurezza e precarietà aumentarono a partire dal XIV secolo, per ragioni che andremo ora a spiegare, e portarono a un peggioramento delle condizioni di vita degli ebrei in Europa sul finire del Medioevo e nella prima età moderna. A incidere in questo cambiamento fu, prima di tutto, il sentimento popolare che divenne sul finire del Medioevo maggiormente ostile verso gli ebrei. L’antigiudaismo di fondo che permeava tutto il mondo cristiano e di cui abbiamo parlato in precedenza portava il popolo e il popolino a guardare comunque con sospetto agli ebrei, membri di una comunità chiusa e misteriosa agli occhi della maggioranza degli europei, impermeabili a ogni tipo di commistione e dotati di una forte identità sociale e religiosa che rimarcava la diversità ebraica in un universo, come quello cristiano-medievale, che viceversa mirava all’uniformità. La diffidenza portava a legare gli ebrei a stereotipi in negativo e ad accostarli a pratiche blasfeme – e false –la profanazione dell’ostia consacrata e l’omicidio rituale di bambini cristiani il cui sangue sarebbe stato usato per riti magici. Questo antisemitismo latente – ma neanche tanto – negli strati più bassi della popolazione esplodeva in occasione di eventi straordinari come i massacri di ebrei che seguirono nel 1096 l’annuncio della Prima crociata, intesa come momento in cui espellere ogni elemento di diversità dal corpo della cristianità.

I pogrom contro le comunità ebraiche, con massacri di migliaia di persone, si ripeterono e anzi aumentarono di intensità e frequenza nel corso del XIV secolo, quanto l’Europa fu scossa prima dalle carestie, poi da flagello della Peste nera. In questi casi gli ebrei vennero ritenuti responsabili di aver attirato sulla cristianità la punizione divina con il loro ostinato negare la parola di Cristo e addirittura vennero ritenuti responsabili della diffusione del contagio pestilenziale. La condizione di diversità, quindi, e la loro estraneità al corpus della cristianità trasformava gli ebrei nei capri espiatori ideali su cui sfogare i bassi istinti di plebi sconvolte dai flagelli della quotidianità.

La recrudescenza dell’antigiudaismo a livello popolare assieme a ragioni di tipo economico e sociale influenzò, e non poco, l’atteggiamento delle autorità civili nei confronti degli ebrei sul finire del Medioevo. Monarchie feudali e governi cittadini per secoli avevano favorito la presenza delle comunità ebraiche, in quanto funzionali all’economia, come detto pin precedenza.   Gli stessi imperatori li ponevano sotto la loro protezione Gli ebrei – affermava nel1157 una carta di Federico Barbarossa – erano protetti perché “ad cameram nostram attineant”, cioè in quanto legati al potere imperiale. In una successiva definizione di Federico II, nel 1234, gli ebrei venivano indicati come “servi nostrae camerae”. Erano quindi alle dirette dipendenze del potere statale, una condizione che se da un lato assicurava la protezione del potere civile, parallelamente esponeva gli ebrei a essere alla completa mercé dei potenti, re, imperatori o signori feudali che fossero. Non a caso sono stati tramandati i casi di ricchi ebrei presi in ostaggio da sovrani e feudatari e rilasciato solo dopo aver versato un forte riscatto nelle casse dell’erario regio.

Ma ciò che mutò, principalmente, sul finire del Medioevo, fu il ruolo economico svolto dagli ebrei nella società occidentale. In quest’epoca, infatti, si allentarono i divieti religiosi per i cristiani di operare in ambito creditizio e finanziario e quindi gli ebrei passarono dalla condizione di “strumenti” indispensabili al buon funzionamento dell’economia europea a fastidiosi competitori per i banchieri e mercanti cristiani. Aumentarono quindi le pressioni sui sovrani e sulle autorità cittadine perché fossero presi provvedimenti vessatori contro gli ebrei. Provvedimenti che avevano l’appoggio del popolo ed erano fomentati dai membri degli ordini mendicanti, prima di tutto i domenicani, che tendevano a includere gli ebrei nella loro accesa polemica antiereticale e di denuncia della corruzione della società cristiana. Dulcis in fundo, nella seconda metà del Quattrocento erano sorti i Monti di Pietà, gestiti dai francescani e in diretta concorrenza con i banchi di prestito ebrei[4].

 

L’età delle grandi espulsioni

Le pressioni portarono al fenomeno delle espulsioni degli ebrei da alcuni stati europei oppure da alcune regioni e città che caratterizza la storia occidentale a partire dalla fine del XIII secolo. Il primo caso si ebbe in Inghilterra dove i membri della comunità ebraica incontravano la crescente ostilità della grande e piccola nobiltà, che aveva contratto debiti enormi con i prestatori ebrei.  Per evitare di ripagare i debiti, la nobiltà ottenne dal re l’espulsione degli ebrei dal regno d’Inghilterra nel 1290 in cambio del versamento di una tassa straordinaria che servì a risollevare le finanze regie. Per le medesime ragioni gli ebrei furono espulsi dai territori sottomessi al re di Francia nel 1306, poi richiamati ed espulsi nuovamente nel 1322, per poi essere riammessi dopo pochi anni. L’espulsione definitiva da territorio francese avverrà nel 1394. Il timore di dover ripagare i debiti contratti spingeva anche a massacri della comunità ebraiche come accadde nel 1298 a Ratisbona  oppure nel 1320 nel sud della Francia dalla Francia. Il caso certamente più celebre di espulsione da un territorio fu quello spagnolo e nel 1322. Il caso più eclatante di espulsione fu però quello spagnolo in quanto la presenza ebraica nella penisola iberica risaliva ai primi secoli del Medioevo e per secoli gli ebrei avevano vissuto a stretto contatto con i cristiani.

Nell’ambito nel processo di Riconquista del territorio iberico, controllato a lungo dagli arabi, il cristianesimo rappresentava un elemento di forte coesione sociale, che i sovrani cristiani decisero di sfruttare fino in fondo. Dal 1412 i re di Castiglia attuarono una politica di conversioni forzate nei confronti degli ebrei e per renderla più efficace moltiplicarono i divieti e le pratiche di emarginazione nei confronti della comunità ebraica. L’istituzione dell” Inquisizione spagnola (1480), incaricata di controllare che i convertiti non continuassero a professare la religione ebraica di nascosto, accentuò la tensione antiebraica in territorio iberico. Alla fine I re Ferdinando di Castiglia e Isabella di Aragona decisero allora di separare drasticamente i conversos (gli ebrei convertiti) dagli ebrei e nel 1492 ordinarono a questi ultimi di convertirsi entro quattro mesi oppure di lasciare la Spagna. Un numero di ebrei stimato fra i 70 e i 170 mila dovette allora lasciare il paese, abbandonando di tutti i propri averi dato che era proibito partire con metalli preziosi. Espulsioni si ebbero anche dai domini spagnoli della Sicilia, Sardegna e nel regno di Napoli (1511), mentre gli ebrei vennero dichiarati indesiderabili in Provenza (tra il 1498 e il 1501) e in parte dei territori tedeschi. La maggioranza degli esuli spagnoli trovò rifugio in Portogallo, dove però, nel 1506, si scatenò un pogrom a Lisbona. L’introduzione  dell’Inquisizione nel 1536 indusse gli ebrei a trovare rifugio nell’Impero ottomano (soprattutto a Istanbul, Salonicco) oppure nei Paesi Bassi oppure in Italia centro-settentrionale. Anche qui però la situazione per gli ebrei stava mutando in concomitanza con un nuovo atteggiamento da parte della Chiesa nei confronti di chi professava la religione ebraica.    La Chiesa, infatti, aveva mantenuto lungo tutto il Medioevo il suo atteggiamento di garante della presenza ebraica  nel mondo cristiano. Per esempio, papa Clemente IV intervenne con decisione per condannare i massacri di ebrei avvenuti durante la Peste Nera. Molti ebrei espulsi dalla Spagna trovarono rifugio a Roma tanto che nel giugno del 1493 l’ambasciatore spagnolo presso la corte pontificia protestò vivacemente contro questa scelta del papa di difendere quelli che non erano altro che nemici della fede cristiana. Neppure possono essere considerate una svolta in negativo, almeno nelle intenzioni iniziali, nei confronti degli ebrei le decisioni prese durante il Concilio Laterano IV del 1215 che portarono all’obbligo per gli ebrei di portare sul loro vestito dei segni che li distinguessero dai cristiani, per lo più un cerchio oppure una “O2 gialla oppure una “U” .  Il segno nacque infatti dalla volontà proclamata di impedire illeciti contatti sessuali tra ebrei e cristiani, una familiarità tra membri di religione diversa fortemente avversata sia in ambito cristiano, sia in ambito ebraico. Rimane il fatto, incontestabile, che con il tempo, l’obbligo di portare un segno distintivo assunse un valore più generale di discriminazione e di infamia, tanto che la norma in questione fu quella più a lungo e fermamente osteggiata dagli ebrei, che hanno tentato in tutti i modi di aggirarla o renderla inefficace. Fu però in generale la politica della chiesa nei confronti degli ebrei a mostrare maggiori segni di ambiguità tra la fine del Medioevo e i primi decenni dell’età moderna.

 

La necessaria separazione tra cristiani ed ebrei

A partire dal Cinquecento e fino al termine dell’Ottocento la storia degli ebrei in Europa occidentale e nell’area del Mediterraneo fu caratterizzata dall’esperienza del “ghetto”. Questo termine ha una valenza ben precisa in quanto indica un’area di emarginazione e segregazione degli ebrei, riservata ad essi soltanto, coatta per legge, prevista come permanente. Una zona caratterizzata dall’isolamento attraverso una barriera fisica in cui si aprivano soltanto ingressi controllati nelle ore diurne e bloccati in quelle notturne, durante le quali sussisteva per i residenti un divieto di uscita. Il ghetto, così come venne concepito a partire dalla metà del XVI secolo e fino al XIX, era quindi una istituzione dalle caratteristiche ben precise, normato a partire dalla bolla Cum nimis absurdum di papa Paolo IV (1555) con la quale venne costituito il ghetto di Roma.

La decisione pontificia era il frutto del clima politico e religioso della seconda metà del secolo, quando il dilagare della Riforma protestante pose il papato di fronte alla necessità di dare un’identità più forte e monolitica al cattolicesimo, contrastando ogni elemento di difformità rispetto all’ortodossia. Era, infatti, divenuto ben difficile convincere i fedeli della legittimità della lotta contro una “eresia” delle dimensioni di quella protestante e al tempo stesso continuare a offrire garanzie a un popolo come quello ebraico considerato nemico per eccellenza del cristianesimo soprattutto a livello popolare. In epoca controriformistica la Chiesa, quindi, si impegnò su scala più ampia per la conversione degli ebrei,  peggiorando in maniera programmatica le loro condizioni di vita e le modalità di permanenza all’interno della società cristiana. Il ghetto fu lo strumento principale di questa nuova politica.

Le clausole della bolla Cum nimis absurdum, stabilivano, infatti, che in tutte le località dello Stato della chiesa gli ebrei avrebbero dovuto vivere concentrati in una sola strada riservata a loro in esclusiva e separata dalle abitazioni dei cristiani. La strada doveva avere un’unica via d’uscita, chiusa da un portone. Altre vie potevano essere occupate, ma solo se attigue alla principale e anch’esse chiuse all’esterno. Agli ebrei non era inoltre consentito avere botteghe al di fuori dell’area di loro pertinenza, non potevano svolgere alcune professioni, vennero posti limiti agli interessi che potevano percepire con i prestiti e furono costretti a cedere i loro immobili di proprietà esterni al ghetto ai cristiani. In breve tempo, in seguito alla bolla papale, venne istituito il ghetto di Roma a cui fecero seguito altre aree di segregazione nei territori controllati dalla Chiesa. Inoltre, le pressioni del papato perché tutti gli Stati che ne riconoscevano autorità e magistero aderissero al programma di emarginazione e concentrazione degli ebrei fecero sì che il  Seicento si caratterizzasse come “l’epoca dei ghetti”. Questo avvenne principalmente in Italia dove il buon accordo con il papato era spesso condizione indispensabile per gli Stati che si erano salvati dalla dominazione straniera per conservare l’indipendenza. Ghetti furono istituiti così anche in Toscana, a Mantova, nei territori e nell’entroterra della Repubblica di Venezia. Una rete di aree di segregazione che ha lasciato una traccia profonda sulla distribuzione territoriale degli ebrei italiani: ancora nella seconda metà del Novecento diciotto delle ventidue comunità ebraiche esistenti in Italia erano poste in località dove era esistito un ghetto. Il ghetto, una prigione a cielo apertoIl ghetto era, certo, la riaffermazione della volontà della Chiesa di fornire agli ebrei un luogo protetto, dove essere relativamente più sicuri. Anche per gli ebrei le barriere del ghetto proteggevano almeno in parte le loro comunità dalla pressione del mondo esterno: non tanto dalla pressione istituzionalizzata del clero volta a ottenerne la conversione, quanto da quella più sottile e diffusa rappresentata dalle suggestioni, dal fascino e dagli influssi esterni. Le mura del ghetto potevano rappresentare la concreta realizzazione di quelle mura invisibili che la Legge aveva costruito intorno all’identità del Popolo Eletto per proteggerla e preservarla. Non a caso l’anniversario della costruzione del ghetto veniva celebrato con feste e preghiere da alcune comunità ebraiche come quelle di Mantova e Verona.Il ghetto, però, era però soprattutto un mezzo di coercizione e di discriminazione istituzionalizzato. Era la cristallizzazione del controllo che da secoli la Chiesa esercitava sulle comunità ebraiche, la creazione di un luogo artificiale dove trattenere gli ebrei in attesa della loro conversione ed entro cui esercitare mezzi coercitivi e punitivi tali da favorire e accelerare la conversione stessa. Era, in estrema sintesi, uno “strumento” punitivo che veniva imposto agli ebrei, li costringeva ad abbandonare le proprie case, le proprie città e relazioni. La vita degli ebrei in queste zone di segregazione era dominata da una incertezza di base dovuta alla precarietà dell’esistenza entro le mura del ghetto, tra sovraffollamento, pressione proselitistica e povertà crescente. Contemporaneamente, nel corso del tempo, si realizzò anche una crescente emarginazione culturale degli ebrei, dovuta alla perdita di ogni tipo di scambio con l’esterno. Un ripiegamento che ebbe la sua testimonianza più evidente nel ghetto di Roma, quello maggiormente controllato dalla Chiesa e l’ultimo a essere smantellato nel 1870, dopo la progressiva scomparsa di questi spazi di segregazione conseguente all’emancipazione degli ebrei seguita alla diffusione dell’Illuminismo e degli ideali della Rivoluzione francese. Una testimonianza che parla di miseria, arretratezza e passività che colpirà tanti visitatori nell’Ottocento e che ritroveremo in maniera ancora più tragica nei ghetti del Ventesimo secolo.  Gli ebrei nella Grande guerraUna volta eliminati i ghetti gli ebrei italiani si diedero da fare per diventare finalmente parte integrante della società italiana. Ebrei parteciparono al Risorgimento, fecero parte dei primi Parlamenti del Regno d’Italia. Parteciparono con fervore a quel terribile momento di enfasi patriottica e nazionalistica che fu la Grande guerra. Furono, infatti, cinquemila gli arruolati, 450 i caduti e 700 i decorati. Non mancarono poi ufficiali medici, rabbini e anche le crocerossine destinate alla cura dei tanti feriti che il fronte restituiva alle retrovie così come sorsero organizzazioni e comitati per sopperire alle esigenze religiose dei militari ebrei. Fu una partecipazione a 360 gradi quella degli ebrei italiani per i quali il primo conflitto mondiale rappresentò l’ideale prosecuzione di un percorso di emancipazione iniziato ancora nell’Ottocento con la chiusura dei ghetti sul territorio italiano. Per gli ebrei dare il proprio contributo nella guerra voleva dire sentirsi parte di una patria italiana al pari degli altri, sancire definitivamente la propria appartenenza alla compagine nazionale e completare un processo di integrazione che era costato non poca fatica e sofferenze. Era un modo per rivendicare il proprio diritto-dovere di essere “uguali fra gli uguali”. Alla fine della guerra furono ben pochi, nel mondo ebraico italiano, a dubitare del fatto di fare parte a tutti gli effetti dell’Italia che avevano contribuito a difendere. A tradire quei soldati e le loro famiglie ci avrebbe pensato, un ventennio dopo, l’introduzione delle leggi razziali volute da Benito Mussolini, la colpevole complicità di tanti, troppi italiani.

Fascismo e antisemitismo

Nell’Europa degli anni Venti e Trenta del Novecento l’antisemitismo era un sentimento diffuso e accettato in ampi strati della società. Ad alimentare questo moderno sentimento anti-ebraico erano il retaggio del tradizionale antigiudaismo cristiano, il nuovo razzismo scientifico e il nazionalismo che mirava a rendere le nazioni sempre più omogenee e identitarie dal punto di vista etnico-religioso. A peggiorare la situazione per gli ebrei si aggiunse la dura situazione sociale ed economica in cui versavano gli stati del Vecchio Continente in conseguenza del Primo conflitto mondiale e della grande crisi economica scoppiata nel 1929. Come in altre epoche difficili, gli ebrei divennero i bersagli ideali per quella parte della popolazione maggiormente provata e frustrata dagli eventi post-bellici.

Questo riacutizzarsi dell’antisemitismo venne, infine, ampiamente cavalcato e fatto proprio dai movimenti di reazionari e fascisti che si stavano affermando in parte dell’Europa, primo fra tutti il Nazismo in Germania. Il movimento fascista italiano non fece eccezione ed ebbe fin dalle sue origini una radicata componente antisemita. Una componente che covò sotto le ceneri negli anni Venti tanto che non mancarono le adesioni al Fascismo da parte di ebrei e ci fu una sostanziale pacifica convivenza in quel periodo tra Comunità ebraica italiana e Regime. Si trattava però di una pace illusoria perché già all’inizio degli anni Trenta Benito Mussolini cominciò ad allontanare gli ebrei dalle posizioni di rilievo all’interno dello Stato fascista, soprattutto se cadevano sotto la sua diretta dipendenza.

Il ruolo del razzismo

La situazione mutò decisamente in peggio per gli ebrei italiani con la conquista dell’Etiopia e la proclamazione dell’Impero italiano (1936). La svolta imperiale coincise con una campagna propagandistica per la diffusione di temi e stereotipi razzisti, una campagna diretta inizialmente contro le popolazioni di colore, definite razza inferiore e da civilizzare. Si arrivò così all’attuazione di una vera e propria politica razziale con l’approvazione nell’aprile del 1937 del primo decreto legge che vietava quelli che venivano definiti “incroci razziali” tra bianchi e neri e proibiva i matrimoni interazziali.

Rapidamente il razzismo si intrecciò con l’antisemitismo e nel giro di pochi mesi si sviluppò una violenta campagna di stampa contro gli ebrei, accusati di essere i veri padroni della finanza internazionale e i fomentatori delle sanzioni economiche che avevano colpito l’Italia durante l’impresa etiopica[5]. Gli ebrei, intanto, cominciarono a essere descritti dai mezzi di informazione come un corpo separato all’interno della nazione italiana, un corpo infido e pericoloso.

Queste campagne erano diretta espressione di Mussolini e dell’establishment fascista e univano nuove motivazioni nuove all’antisemitismo diffuso fin dalle origini nel movimento fascista. Pesavano, infatti, i nuovi miti imperiali della purezza della razza italica e la volontà sempre più decisa di sradicare ogni tipo di diversità e distinzione all’interno della società italiana. Di conseguenza il Regime mal sopportava l’autonomia mostrata troppo dalla Comunità ebraica che intervenne, per esempio, in favore degli ebrei tedeschi perseguitati dal Nazismo. Meno peso in questa accentuazione delle politiche razziste e antisemite del Fascismo ebbe il rafforzarsi del legame con la Germania hitleriana dato che Mussolini in quegli anni si mostrava ancora molto indipendente dall’alleato tedesco.

Alla propaganda, comunque, fecero ben presto seguito anche documenti ufficiali e istituzionali volti a sottolineare la distanza razziale che esisteva tra italiani ed ebrei. Il 14 luglio 1938 venne ultimato il documento teorico Il fascismo e i problemi della razza (o Manifesto degli scienziati razzisti) all’interno del quale si negava esplicitamente l’appartenenza degli ebrei alla razza italiana, definita di origine ariana e di civiltà ariana: « Gli ebrei rappresentano l’unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli Italiani»[6].

 

Gli obbiettivi della politica fascista contro gli ebrei

L’antisemitismo fascista trovò poi la sua definizione più completa il 6 ottobre del 1938 con la Dichiarazione della razza emanata dal Gran Consiglio del Fascismo in cui si affermava che «l’ebraismo mondiale […]è stato l’animatore dell’antifascismo in tutti i campi e che l’ebraismo estero o italiano fuoruscito è stato in taluni periodi culminanti, come nel 1924-25 e durante la guerra etiopica, unanimemente ostile al Fascismo. L’immigrazione di elementi stranieri accentuatasi fortemente dal 1933 in poi, ha peggiorato lo stato d’animo degli ebrei italiani nei confronti del Regime, non accettato sinceramente, poiché antitetico a quella che è la psicologia, la politica e l’internazionalismo d’Israele. Tutte le forze antifasciste fanno capo ad elementi ebrei».

Prima di questa dichiarazione, però, il regime si era già mosso con azioni concrete per affrontare quello che oramai apertamente era definito come il “problema ebraico”. Un problema risolvibile, secondo Mussolini, solo emanando una serie di leggi che estromettessero progressivamente gli ebrei da tutti gli ambiti della vita civile e sociale così da spingerli ad abbandonare l’Italia. Si voleva quindi fare “terra bruciata” attorno alla comunità ebraica così da isolarla ed espellerla, come già da alcuni anni stava accadendo in Germania.

Venne allora disposto, nell’agosto del 1938, un censimento della popolazione ebraica esistente in Italia e realizzato dalla neonata Direzione generale per la demografia e la razza (Demorazza), istituita dal Ministero dell’Interno. Il censimento rivelò che sul territorio nazionale vivevano 48.032 ebrei italiani e 10.380 ebrei stranieri, per un totale di poco più di 58.000 persone, cioè l’1 per mille della popolazione complessiva.

Questi dati, poi costantemente monitorati di modo che le autorità di polizia sapessero sempre numero e residenza degli ebrei in Italia, servirono a focalizzare gli obbiettivi della legislazione antiebraica che si voleva introdurre. Una legislazione che aveva una chiara impostazione razzistica biologica perché definiva di “razza ebraica” chi era figlio di due genitori di razza ebraica, anche se ateo o di religione cristiana. Era ariano, viceversa, chi discendeva da due genitori di razza ariana indipendentemente dalla religione che professava. Chi era nato da un matrimonio misto poteva essere classificato come ebreo o no a seconda della religione e della nazionalità sua e dei genitori.

Le prime norme antiebraiche

Per il Regime quindi gli ebrei non erano di razza italiana, erano antifascisti, erano censiti e definiti dal punto di vista razziale. Ora li si poteva colpire con una serie di leggi – chiamate volgarmente leggi razziali – introdotte a partire dal settembre 1938 e volte a perseguitare i diritti degli ebrei così da renderli in pratica non-cittadini italiani. Materialmente il regime non dispose una revoca generale della cittadinanza italiana per gli ebrei. Li escluse de facto dalla nazione impedendo loro, per esempio, di far parte delle Forze Armate, in quell’epoca il simbolo stesso dell’appartenenza all’Italia. Procedendo per gradi, però, i primi decreti legge del settembre 1938 colpirono gli stranieri di razza ebraica ai quali venne revocata la cittadinanza italiana se ottenuta dopo il 1°gennaio 1919. Coloro che erano giunti in Italia dopo questa data avevano sei mesi di tempo per lasciare il Paese. Allo stesso tempo venne stabilito l’allontanamento dalle scuole pubbliche degli studenti ebrei e l’espulsione da scuole e università di insegnanti e docenti ebrei[7]. Le Comunità ebraiche dovettero quindi attrezzarsi rapidamente per organizzare scuole ebraiche in cui andarono a lavorare gli insegnanti e i docenti espulsi dalle istituzioni pubbliche[8].

Vennero quindi vietati i libri di testo di autori di “razza ebraica”, anche se scritti in collaborazione con autori ariani, comprendendo in questo provvedimento tutti gli scrittori ebrei morti dopo il 1850. I testi di autori ebrei già pubblicati vennero ritirati dal commercio e tolti dalla consultazione nelle biblioteche. Venne cancellata la stampa ebraica e gli artisti ebrei (musicisti, cantanti, attori, registi ecc.) furono progressivamente esclusi da radio, cinema e teatri. Pittori e scultori non poterono più allestire mostre.

I diritti negati

Il 17 novembre 1938 venne emanato il decreto principale della legislazione antiebraica. Esso vietava i matrimoni misti, il possesso di aziende di rilievo per la difesa nazionale e con più di 99 dipendenti, il possesso di immobili e stabili superiori a determinate dimensioni e la possibilità di avere personale domestico non ebreo. Gli ebrei, inoltre, non poterono più prestare servizio nelle amministrazioni pubbliche civili e militari, una proibizione che progressivamente venne estesa anche alle attività e agli impieghi privati. Tra il 1938 e il 1942 furono revocate agli ebrei le licenze di lavoro che necessitavano di autorizzazione di polizia (come per il diffusissimo lavoro di venditore ambulante). Inoltre il Ministero delle Corporazioni ordinò ad aziende e uffici di collocamento di favorire sempre l’occupazione di lavoratori ariani. Nel giugno 1939, intanto, era stata disposta la cancellazione degli ebrei dagli albi professionali e i professionisti di “razza ebraica” potessero esercitare la loro professione solo per altri ebrei. Inoltre la dicitura “di razza ebraica” comparve su tutti i documenti anagrafici, sulle pagelle, sui libretti di lavoro tranne che sui passaporti così da facilitare l’emigrazione degli ebrei.

Migliaia di persone si ritrovarono di fatto escluse dalla vita della nazione come ci racconta questa testimonianza d’epoca: «Io ebbi precluso l’esercizio della professione di avvocato, con la quale guadagnavo quanto occorreva per mantenere i numerosi familiari. Dei miei sette figli, la maggiore, laureata e sposata, aveva vinto un concorso d’insegnamento, ma la legge glielo precluse; i1 marito, impiegato al tribunale, e che si preparava agli esami per il passaggio alla Magistratura, fu licenziato con un’indennità ridicola. Altri due miei figli, laureati in scienze e in legge, furono posti nell’impossibilità di svolgere attività in impieghi pubblici e in grave difficoltà per trovare lavoro in aziende private. Gli altri miei figli erano ancora agli studi e furono cacciati dalle scuole pubbliche. Era loro consentito dare gli esami a fine anno e venivano ammessi a scrivere i temi degli esami scritti insieme agli altri; ma, dettati i temi, si richiedeva agli alunni ebrei di alzarsi e di uscire, perché non potevano restare nella classe con gli altri e dovevano recarsi, per lo svolgimento del tema, in un’aula separata. Agli esami orali dovevano presentarsi dopo tutti gli altri.»[9].

Le reazioni alle leggi antiebraiche

Tra il 1938 e il 1943 ogni ambito della vita venne colpito duramente. Furono introdotti divieti religiosi con la proibizione di celebrare le festività ebraiche e di eseguire la macellazione kosher[10]. Venne negata la possibilità di frequentare stazioni balneari e di far parte di associazione sportive dato che queste dovevano porsi come obbiettivo solo il miglioramento fisico e morale della razza ariana. Si assistette a una vera e propria ghettizzazione da cui furono esclusi solo quegli ebrei che avevano ottenuto la cosiddetta “discriminazione” per particolari benemerenze acquisite (onorificenze di guerra, adesione al Fascismo fin dalle origini ecc.). Una ghettizzazione a cui la maggior parte degli italiani non si oppose come scrisse anche Primo Levi: «Da pochi mesi erano state proclamate le leggi razziali, e stavo diventando un isolato anch’io. I compagni cristiani erano gente civile, nessuno fra loro né fra i professori mi aveva indirizzato una parola o un gesto nemico, ma li sentivo allontanarsi, e, seguendo un comportamento antico, anch’io me ne allontanavo: ogni sguardo scambiato fra me e loro era accompagnato da un lampo minuscolo, ma percettibile, di diffidenza e di sospetto. Che pensi tu di me? Che cosa sono io per te? Lo stesso di sei mesi addietro, un tuo pari che non va a messa, o il giudeo …?»[11].

Nei fatti la società italiana si adeguò alle leggi razziali senza grandi proteste e defezioni, con prona e pronta adesione ai voleri del Regime. I provvedimenti vennero spesso applicati con rigore da solerti funzionari e impiegati e prevalse l’indifferenza perché queste norme non colpivano i non-ebrei nelle loro abitudini e nei loro interessi. Anzi in molti casi eliminavano dalla scena potenziali concorrenti e rivali per ruoli pubblici e impieghi. Anche la Chiesa cattolica non si oppose con decisione alle leggi razziali e papa Pio XI si limitò a protestare per il divieto dei matrimoni misti, accettati dal diritto canonico e previsti dal Concordato del 1929.

Gli ebrei poterono contare solo sulle loro forze e sulla solidarietà individuale di parenti e amici ariani. Nonostante la durezza delle limitazioni imposte dal Fascismo, però, i membri della Comunità ebraica continuarono a considerare le restrizioni come provvisorie e solo pochi decisero di emigrare. A incidere fu a volte la mancanza di mezzi economici e di contatti che rendessero più semplice l’emigrazione. Ancora di più contò, però, la volontà di molti ebrei di rimanere e di rifiutare l’espulsione da quella che consideravano la loro terra come ci ha testimoniato sempre Primo Levi: «Questo villaggio, o città, o regione, o nazione, è il mio, ci sono nato, ci dormono i miei avi. Ne parlo la lingua, ne ho adottato i costumi e la cultura; a questa cultura ho forse anche contribuito. Ne ho pagato i tributi, ne ho osservato le leggi. Ho combattuto le sue battaglie, senza curarmi se fossero giuste o ingiuste: ho messo a rischio la mia vita per i suoi confini, alcuni miei amici o parenti giacciono nei cimiteri di guerra, io stesso, in ossequio alla retorica corrente, mi sono dichiarato disposto a morire per la patria. Non la voglio né la posso lasciare: se morrò, morrò “in patria”, sarà il mio modo di morire “per la patria»[12]. Gli ebrei si sentivano italiani e consideravano l’Italia la loro patria. Una patria che li aveva traditi – e che li tradirà ancora di più con le deportazioni del 1943-45 – ma a cui non volevano rinunciare.

I numeri della Shoah in Italia

Nella primavera del 1945 con la fine della guerra in Europa e il crollo del nazifascismo finì la persecuzione degli ebrei anche nel nostro Paese. Il prezzo pagato dalla comunità ebraica alla fine fu altissimo prima di tutto in termini di vite umane, ma dobbiamo pensare che la maggior parte dei sopravvissuti subì in quegli anni privazioni, spoliazioni e perse buona parte di quello che possedeva prima del conflitto. Sulla base di ricerche oramai più che trentennali e non ancora concluse, Liliana Picciotto ha quantificato nel  2002 il complesso dei deportati dall’Italia (morti o sopravvissuti) e degli uccisi (durante rastrellamenti, esecuzioni ecc.) nella penisola in 8028-8128. I deportati identificati sono 6765 (5939 uccisi e 826 sopravvissuti), quelli di cui non si conosce il nome circa 720-820 (la maggior parte dei quali probabilmente uccisa nei lager tedeschi). Quanto ai deportati dei quali sono stati identificati sia il nome sia il campo di destinazione, il 91 per cento fu destinato ad Auschwitz e di questi il 94 per cento di questi non sopravvisse[13]. Perse quindi la vita circa un quarto degli ebrei presenti in Italia centro-settentrionale al momento dell’armistizio con gli Alleati. Circa 250 furono, inoltre, i combattenti della Grande guerra che vennero deportati e uccisi nei campi di sterminio nazisti perché la persecuzione e la discriminazione tragicamente non risparmiarono neppure chi fino a poco tempo prima era considerato alla stregua di un eroe. Solo con la Liberazione gli ebrei italiani sopravvissuti “dilaniati dal contrasto tra il dolore per gli uccisi e la gioia per i vivi, furono di nuovo liberi di esistere, di essere uguali, di avere una loro identità[14].

 

Bibliografia

Maurizio Ghiretti, Storia dell’antigiudaismo e dell’antisemitismo, Bruno Mondadori, Milano, 2007.Anna Foa, Ebrei in Europa. Dalla Peste Nera all’emancipazione. XIV-XIX secolo, Laterza, Bari, 2004.Corrado Vivanti (a cura di), Storia d’Italia. Annali. Vol. 11: Gli ebrei in Italia: dal medioevo all’età dei ghetti, Einaudi, Torino, 1996.

Enzo Collotti, Il fascismo e gli ebrei. Le leggi razziali in Italia, Laterza, 2006.

Michele Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Einaudi 2007

Mario Avagliano e Marco Palmieri, Di pura razza italiana. L’Italia «ariana» di fronte alle leggi razziali, Baldini & Castoldi, 2013

Riccardo Calimani, Storia degli ebrei italiani. Vol. 3: Nel XIX e nel XX secolo, Mondadori, 2015.

Valeria Galimi, Sotto gli occhi di tutti. La società italiana e le persecuzioni contro gli ebrei, Le Monnier, 2018

 

[1] Gli ashkenaziti (o aschenazita) differiscono dagli altri ebrei in talune pratiche rituali, nella pronuncia dell’ebraico e nel formulario liturgico. Nell’XI secolo si calcola che gli ashkenaziti costituissero solo il 3% della popolazione ebraica mondiale. Giunsero, al massimo della loro espansione demografica (1931) a rappresentarne il 92%, ed oggi sono grosso modo l’80% del totale). La maggior parte delle comunità ebraiche con una lunga tradizione in Europa sono ashkenazite, ad eccezione di quelle delle regioni mediterranee. Una gran parte degli ebrei che negli ultimi due secoli hanno lasciato l’Europa diretti in altri continenti, in particolare verso gli Stati Uniti, sono, inoltre, ashkenaziti.

[2] In quest’epoca i territori imperiali comprendevano tutta l’area tedesca dell’Europa centrale.

[3] I dati sono desunti da Salo Wittmayer Baron, Population, In Encyclopaedia Judaica 13, coll. 877-878 (1971).

[4] I Monti di Pietà erano istituti destinati a concedere prestiti (anche minimi) a miti condizioni, con garanzia di pegno su oggetti.  Si diffusero  in Italia dopo la nascita del Monte dei Pegni di Perugia (1462), e soprattutto dopo che papa Leone X nel primo Cinquecento riconobbe la liceità dell’interesse (solo se destinato a coprire le spese d’esercizio).

[5] Le sanzioni erano state decise dalla Società della Nazioni e rimasero in vigore dal 18 novembre 1935 al 4 luglio 1936.

[6] Paragrafo IX intitolato “Gli ebrei non appartengono alla razza italiana”.

[7] Solo agli studenti universitari già iscritti ai corsi fu consentito di portare a termine il loro ciclo di studi.

[8] Persero la possibilità di insegnare e di fare ricerca grandi esponenti della cultura e della scienza italiana come i matematici Federigo Enriques e Tullio Levi-Civita, il biologo Giuseppe Levi, i fisici Enrico Fermi e Bruno Rossi, questi ultimi poi emigrati in America e divenuti grandi esponenti della fisica statunitense.

[9] Enzo Levi, Memorie di una vita, 1889-1947, STEM, 1972, pp 85-86.

[10] Kosher è l’insieme di regole religiose che governano la nutrizione degli Ebrei osservanti. La parola ebraica “kasher o kosher” significa “conforme alla legge”, “consentito”.

[11] Primo Levi, Il sistema periodico, Einaudi, 1975, p. 48.

[12] Primo Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, 1986, pp. 133-34.

[13] I numeri e i nomi della Shoah in Italia sono disponibili su www.cdec.it e www.museoshoah.it.

[14] Michele Sarfatti, Op. cit, pag. 308

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