Leningrado 1941-1944: diario da una città sotto assedio

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“Due crateri scavati dalle bombe e fusi in un unico enorme cratere, un vagone cisterna sventrato, la terra del colore della nafta di cui è impregnata, una locomotiva incendiata e rovesciata sotto il terrapieno e in mezzo una scritta di prima della guerra: «Vietato fumare. I trasgressori saranno puniti!»”. Così comincia il diario di guerra di Vera Inber, in data 22 agosto 1941, a due mesi esatti dall’invasione nazista dell’Unione Sovietica, lanciata da Hitler con l’Operazione Barbarossa.

di Simone Campanozzi

La strenua resistenza dei civili, la controffensiva dell’Armata Rossa, gli assedi e le battaglie epiche che si sarebbero combattute in tutto il territorio sovietico nei successivi tre anni e mezzo contribuiranno a creare il “mito” di quella che, ancora oggi, i russi chiamano la “Grande Guerra Patriottica”. In particolare, a Leningrado, dove si trovava la scrittrice e poetessa Vera Inber, si consumerà il più lungo e drammatico assedio della storia, che costò la vita a più di un milione di persone. Negli ultimi tre decenni, va ricordato, vi sono stati terribili e sanguinosi assedi più lunghi di quello di Leningrado, nella città di Sarajevo, dal 5 aprile 1992 al 29 febbraio 1996 e in quella di Aleppo, la cui durata ha addirittura superato i quattro anni, dal 19 luglio 2012 al 22 dicembre del 2016.

 

Chi era Vera Inber?

Ma chi era Vera Michajlovna Inber? Nasce a Odessa nel 1890 in una famiglia della borghesia ebraica, suo padre Moisej Špencer era proprietario di un importante tipografia cittadina e cugino di Lev Trockij, parentela che avrebbe suscitato una certa diffidenza verso la scrittrice da parte del potere sovietico in epoca staliniana. Vera frequenta la Facoltà di Storia e Letteratura dell’Università di Odessa e, a partire dal 1910, insieme al primo marito Natan Inber si trasferisce a Parigi, dove pubblicherà a sue spese la prima raccolta di versi, Pečal’noe vino (Vino triste). Con lo scoppio della Grande Guerra torna a Odessa e, nei primi anni Venti si stabilisce a Mosca. La seconda raccolta, Delizia amara, vide la luce nel 1917, seguita da Parole periture (1922). A metà degli anni venti la Inber si accosta ai costruttivisti, sposando la causa sovietica e l’ideologia bolscevica, al punto da collaborare alla stesura de Il canale Stalin Mar Bianco – Mar Baltico, un’opera apologetica, in cui scrittori e critici sovietici celebrarono un’infrastruttura monumentale e di grande ingegneria, che era stata però costruita con il lavoro forzato e schiavistico dei detenuti comuni e politici del gulag. Sposa in terze nozze l’accademico Il’ja Strašun, medico igienista, e nel 1941 si trasferisce con lui a Leningrado, dove egli era stato nominato direttore dell’Ospedale Erisman.

Il diario quasi quotidiano della Inber conduce il lettore in una sorta di percezione allucinatoria della inesorabile discesa agli inferi. Mentre il marito trascorre le sue giornate nell’ospedale dell’Istituto di Medicina, ella alloggia nel vicino istituto di Farmaceutica e, sotto la minaccia costante di bombardamenti e lanci di granate dei tedeschi, collabora all’interno dell’Unione degli Scrittori, intervenendo alla radio con proclami e discorsi ricchi di pathos propagandistico: “Compagni! Leningradesi! Cittadini della città di Lenin! Parlando in questo momento davanti a voi, vorrei portarvi il saluto di Mosca, la mia città, che in questi giorni terribili è coraggiosa e salda come la vostra Leningrado” (27 agosto 1941).

L’autunno 1941-1942

L’autunno-inverno del 1941-1942 rappresentò per i cittadini di Leningrado il periodo più drammatico dell’intero assedio, con decine di migliaia di morti per fame, per ferite di guerra, per malattie. I nazisti bombardavano la città dall’alto e dal basso, colpendo caseggiati, scuole, ospedali, per diffondere il terrore nella popolazione: “I tedeschi usano una nuova tattica: prima lanciano bombe ad alto potenziale esplosivo, poi, quando un edificio è sventrato, senza difesa, lo inondano di bombe incendiarie…” (23 settembre 1941). In quei tragici giorni, Vera Inber apprende, commossa, che Šostakovič sta componendo la sua Settima Sinfonia: “Significa che l’arte non è morta: essa continua a vivere, a risplendere e a riscaldare il cuore”. Lei stessa, tutti i giorni, si reca dai feriti al Secondo Reparto di chirurgia, per leggere loro Gor’kij, Nekrasov, i racconti di Mark Twain, provando a lenire il dolore fisico con le parole di grandi scrittori e poeti. Molti scrittori e intellettuali erano fuggiti, da Leningrado stavano evacuando migliaia di persone, ma Vera Inber e il marito decidono di rimanere in città, pur consapevoli di andare incontro alla fame più nera, soprattutto dopo che i nazisti avevano bombardato i magazzini Badaev che contenevano le scorte di cibo. Un professore le confidava che la figlia aveva trascorso tutta la giornata a cercare il suo gatto in soffitta, ma non per prendersene cura: “volevamo mangiarlo” (28 novembre 1941). Nonostante tutto, il 7 dicembre la Inber e il marito si recano alla Filarmonica per assistere alla Quinta Sinfonia di Beethoven e all’Ouverture 1812 di Čajkovskij, in un’atmosfera lugubre: “un freddo tremendo e i lampadari spenti per tre quarti. Per i violinisti è necessario avere le braccia libere, ecco perché indossano il giubbotto. I violoncellisti e a maggior ragione i suonatori di contrabbasso possono tenere la pelliccia, dato che i movimenti vanno dall’alto verso il basso…”. Poi, il giorno seguente, leggiamo sul suo diario che il Giappone ha attaccato gli Stati Uniti senza dichiarazione di guerra. Ma la fame non dà tregua ai cittadini di Leningrado: “Nelle strade, i volti sono tesi, lucidi e gonfi, oppure verdastri e devastati. Non un grammo di carne sotto la pelle. E il freddo morde queste carcasse disseccate” (2 gennaio 1942). I camion passano e per le strade si diffonde un forte odore di essenza d’abete, un odore mortale perché è il liquido con cui venivano cosparsi i mucchi di cadaveri raccolti per strada.

 

 

L’ossessione per il cibo

Nel leggere tra le righe del diario non si può non rimanere colpiti dalla sua capacità analitica nel descrivere i particolari, terribili, grotteschi, di tutto ciò che osserva. Come sappiamo dalle testimonianze di coloro che si trovarono a vivere a Leningrado durante gli anni dell’assedio, la ricerca di cibo era una vera e propria ossessione, per un piatto di Kaša si dovevano fare code estenuanti, e il trauma della fame marchiò per sempre i sopravvissuti. Si pensi all’importante testimonianza di Lidija Ginzburg nel suo volume Memorie di un assedio, quando scrive: “perché l’unica cosa che conta è procurarsi il cibo e continuare a fingere che tutto continui come sempre: la morte può essere rimossa per la semplice ragione che è inaccessibile all’esperienza”. Da parte sua, Vera Inber, dopo aver assistito ad una conferenza sulla “malattia della fame”, tenuta dal professor Tušinskij, il 7 gennaio 1942, appunta: “Il fegato è un deposito di sostanze alimentari. Un fegato normale pesa 1500 grammi, il fegato di un affamato ne pesa 700. La malattia della fame si manifesta con l’edema o con un dimagrimento pronunciato. I pazienti che presentano l’edema hanno il sangue più fluido. La pelle è secca, è priva di sudore, e di sostanze grasse e lubrificate, è l’apatia, l’espressione del viso è particolare…” (7 gennaio 1942).

La morsa del gelo

Qualche giorno più tardi, nella dimensione spettrale di una Leningrado stretta nella morsa del gelo, Vera avverte il suono del fischio di un treno: “Allora è vero che la nuova strada che attraverso il lago Ladoga di cui ci hanno parlato è già in funzione. I treni potranno trasportare i rifornimenti dal Ladoga a noi. Per noi forse sarà la salvezza” (9 gennaio 1942). Si trattava di quella che verrà chiamata Strada della Vita. L’unica via di comunicazione che collegava Leningrado al resto del Paese era sulle acque del Lago Làdoga. Fin dall’estate, il lago era stato usato per evacuare parte della popolazione civile, ma dopo che la città era stata accerchiata, quella stessa strada in pieno inverno venne utilizzato principalmente per cercare di far arrivare un po’ di generi alimentari. Vera Inber avrebbe attraversato, su un camion, il lago ghiacciato più volte in quell’inverno del 1942, per partecipare a riunioni politiche, per l’approvvigionamento, per dare conforto ai soldati in prima linea: “Per il combattente la neve è di un’importanza essenziale per la sua vita. In essa lui si seppellisce, la beve, si lava” (26 febbraio 1942).

La morte del nipotino

Purtroppo, la morte avrebbe colpito anche la famiglia della scrittrice. Il suo amato nipotino, Mišen’ka, che aveva visto l’ultima volta a Mosca prima di trasferirsi a Leningrado, aveva contratto la meningite ed era morto nel giro di poco tempo. Solo la scrittura le diede la forza di continuare a combattere e a resistere, con tutte le sue forze: “Oggi è il mio compleanno! Quest’anno non ho conosciuto che un dolore grande: la morte di Mišen’ka. Senza questo, avrei potuto dire che sono stata perfettamente felice, della felicità più pura, grazie al mio lavoro che si è dimostrato utile durante la guerra…Il mio lavoro di scrittrice è un impegno di battaglia” (10 luglio 1942). L’esperienza del lutto sarà evocata nel capitolo terzo del suo poema Il meridiano di Pulkovo, che la Inber avrebbe letto in anteprima in un teatro di Mosca, agli amici scrittori della capitale, nelle vesti di ambasciatrice di Leningrado: “A loro parlai dei leningradesi, delle donne, degli uomini al fronte, dei bambini…del ragazzino che piangendo spargeva la sabbia su una bomba incendiaria. Quella bomba lo spaventava, perché aveva solo nove anni, ma, pur piangendo, lui cercava di spegnerla” (23 luglio 1942).

Curando le piante

Vera Inber alimentava le sue speranze anche con letture sulla vita delle piante e con la cura di quella poca flora che rimaneva in città: “Il granello di clorofilla è come un anello che unisce il grandioso slancio d’energia sviluppato sull’astro che ci illumina e tutte le manifestazioni di vita che esistono sul nostro pianeta” (14 gennaio 1942). Purtroppo in città si vedevano solo alberi “mutilati”, come “corpi scorticati”, abeti e querce da cui si strappavano agi di pino e corteccia per ottenere infusi, ricchi di vitamine e tannino, un naturale astringente. Ciò che colpisce è l’immedesimazione della poetessa in quella natura, umana e floreale, violentata di fronte ai propri occhi, giorno dopo giorno, testimone impotente del massacro di donne e bambini di una grande città come Leningrado, che cerca disperatamente di resistere ad un assedio disumano: “Il silenzio, il vuoto della città sembrano realmente sorprendenti. E perfino gli orti sono tristi. Nessuno è riuscito a far spuntare le verdure, nessuno ha verificato la semina dei cavoli…” (7 agosto 1942). Grazie alla sua inesauribile vena poetica, ella si prodigava per sostenere il morale dei soldati. La TASS, l’agenzia ufficiale d’informazione dell’Urss, pubblica in quei mesi il suo poema Colpisci il nemico! Poi lavora al poema Le alture di N., quando è già trascorso un anno dal primo bombardamento della città, che aveva distrutto, tra l’altro, i magazzini Badaev, lasciando la popolazione priva di derrate alimentari. Vera Inber continua a recarsi nelle officine per leggere i suoi versi ad artigiani e operai: “Al termine, vidi alzarsi dalla prima fila e salire sul palco un adolescente col berretto in testa. Il miglior stachanovista della fabbrica – mi sussurrò il segretario dell’organizzazione del Partito. Il giovane mi ringraziò a nome di tutta la loro officina. Gli chiesi se gli piacevano i versi. Lui tacque per un istante, poi mi rispose: Ma…non sono dei versi, è la verità. Non poteva farmi un complimento migliore” (16 settembre 1942).

Pur utilizzando un linguaggio propagandistico proprio di quell’epoca e di quel contesto storico, la Inber decise di non pubblicare alcune parti del suo diario, per evitare censure in merito ad argomenti e giudizi che potevano sminuire la narrazione ufficiale dell’eroica resistenza di Leningrado.

La fede ideologica

Sorretta da una forte e incrollabile fede ideologica, la Inber riassume in modo quasi commovente il rapporto che intrattiene con la sua scrittura: “Sono la madre di una immensa famiglia, i miei figli sono i versi del mio quarto capitolo. A loro penso senza tregua, notte e giorno. Vado continuamente da uno all’altro. Vesto il primo, liscio il ciuffo del secondo, soffio il naso al terzo. E il quarto poi, lo metto semplicemente alla porta. Passo il tempo a lavarli, a prepararli, ad accarezzarli” (6 ottobre 1942). Ella sapeva e scriveva nel suo diario, in quelle settimane, che tutto si sarebbe deciso a Stalingrado, dove “si gioca tutto l’esito della guerra”. E Stalingrado resisteva mentre, in Nord Africa, la disfatta tedesca, “o meglio italiana”, era sempre più evidente. Leningrado, Odessa, Sebastopoli, Stalingrado non solo resistono ma contrattaccano e il governo si affretta a coniare medaglie per premiare i difensori di queste importanti città dell’URSS. E poi, finalmente, la notizia che la VI armata tedesca e il generale feldmaresciallo von Paulus sono capitolati: “In tutto 24 generali e 91.000 prigionieri in totale Tutte le operazioni sono cessate a Stalingrado e nei dintorni” (4 febbraio 1943). Invece, a Leningrado, l’assedio e i bombardamenti tedeschi sarebbero continuati per quasi un altro terribile anno, con modalità sempre più devastanti per la popolazione inerme: “Che giornata spaventosa! I tedeschi ora hanno evidentemente inaugurato una nuova tattica: bombardamenti multipli ma piuttosto brevi, che provocano un numero enorme di vittime, poiché la prima bomba è sempre la più micidiale, a causa dell’effetto sorpresa” (24 luglio 1943. Sera). Due giorni più tardi, Vera Inber riporta la notizia diramata dalla radio: “Mussolini ha appena dato le dimissioni”. Possiamo immaginare con quale sollievo ella apprendesse una tale notizia. Le informazioni dai vari fronti arrivavano, seppure incomplete, quasi in tempo reale, se pensiamo che l’8 settembre la poetessa appunta sul suo diario le seguenti parole: “Avvenimento importante: l’Italia ha capitolato. La notizia non è stata ancora confermata ufficialmente, ma è sicuro”. E conclude: “Abbiamo liberato Stalino nel Donbass”. Stalino, che dal 1961 si chiamerà Donec’k, è la città ucraina in queste settimane tristemente nota perché sotto i bombardamenti dell’esercito e dell’aviazione russa. Fa una certa impressione leggere oggi nelle pagine della Inber le puntuali registrazioni della liberazione delle città del Donbass, dei territori lungo il Dnepr, di Kiev dalle truppe hitleriane, che precedettero di un paio di mesi la liberazione di Leningrado: “Da molto tempo non scrivo. Eppure sono successe molte cose. Le nostre truppe hanno liberato Kiev. A momenti si ha l’impressione che la fine della guerra si avvicini, che emozione!” (8 novembre 1943). Oggi le popolazioni inermi delle città ucraine muoiono sotto i bombardamenti della Russia di Putin, in nome del cosiddetto Russkij Mir e di una visione egemonica e imperialistica che non lascia grandi speranze per l’avvenire.

In attesa della liberazione

Allora, nel pieno della seconda guerra mondiale, contava solo lo sforzo collettivo di una intera nazione nello sconfiggere l’esercito tedesco invasore: “Ecco l’avvenimento più importante per la vita di Leningrado: la liberazione dall’assedio. Qui le parole mancano a me, una scrittrice di professione. Semplicemente dico che Leningrado è libera e non c’è altro da dire”. Era il 27 gennaio 1944, finivano quasi due anni e mezzo dell’assedio per antonomasia; Vera Inber e suo marito sarebbero tornati a vivere a Mosca, dove ella avrebbe continuato a scrivere e a tradurre. Il suo diario fu insignito del premio Stalin nel 1946 e pubblicato in quegli anni anche in Francia e Germania. La Inber collaborerà nel secondo dopoguerra, insieme a Vasilij Grossman e a Il’ja Eremburg al Libro nero, importante raccolta di testimonianze sul genocidio degli ebrei sovietici ad opera dei nazisti, opera allora censurata e pubblicata in russo solo nel 1980 a Gerusalemme, a causa della campagna antisemita e contro ogni ingerenza internazionale scatenata da Stalin negli ultimi anni della sua vita. Vera Inber muore a Mosca nel 1972.

Vera Inber, Quasi tre anni. Leningrado. Cronaca di una città sotto assedio, traduzione e cura di Francesca Gori, Guerini e Associati, 2022, 231 pp.

 

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