Il fascismo? Razzista fin dalle origini

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di Simone Campanozzi

«Sostituzione etnica»: sembra incredibile, ma il capogruppo di Fratelli d’Italia Carlo Ciccioli alla regione Marche ne ha parlato in una seduta consiliare il 16 gennaio 2021, quando l’ex parlamentare e coordinatore regionale del partito della Meloni è intervenuto sulla legge 194 e il diritto all’aborto legale. Il consigliere regionale ha sostenuto la necessità di puntare sulla natalità per evitare una sostituzione etnica dei marchigiani con gli immigrati che invece continuano a fare figli. È razzismo, oltre un attacco al diritto per l’aborto legale che le donne hanno ottenuto 40 anni fa, ma che ci si ostina a mettere in discussione. Un segno dei tempi? No, come illustra molto bene Simone Campanozzi, dell’Istituto lombardo di storia contemporanea, il tema era già stato sollevato dal presidente della regione Lombardia. Ma, soprattutto, fa parte del bagaglio del Fascismo, sin dai suoi esordi.

Lipsia, StreetArt. Foto di ValeriaPalumbo

di Simone Campanozzi

«Negri e gialli sono dunque alle porte?»

Il 15 gennaio del 2018, l’allora candidato leghista alla presidenza della regione Lombardia, Attilio Fontana, in risposta a un ascoltatore che urlava contro l’invasione dei migranti, su Radio Padania ebbe a dire: “Noi non possiamo accettarli tutti. Perché se dovessimo accettarli tutti vorrebbe dire che non ci saremmo più noi come realtà sociale, come realtà etnica. Perché loro sono molti più di noi, perché loro sono molto più determinati di noi nell’occupare questo territorio. Quindi noi di fronte a queste affermazioni dobbiamo ribellarci. Non possiamo accettare. Perché qui non è questione di essere xenofobi o razzisti, è questione di essere logici, razionali. Noi non possiamo perché tutti non ci stiamo. Quindi dobbiamo fare delle scelte. Dobbiamo decidere se la nostra etnia, se la nostra razza bianca, se la nostra società deve continuare a esistere o se la nostra società dev’essere cancellata. È una scelta. Se la maggioranza degli italiani dovesse dire “noi vogliamo auto-eliminarci”, e vabbè, vorrà dire che noi ce ne andremo da un’altra parte, quelli che non vogliono auto-eliminarsi». https://www.ilpost.it/2018/01/15/attilio-fontana-razza-bianca/

Già Mussolini, era il 1928, paventava il decadimento demografico della «intera razza bianca, la razza dell’Occidente, che può venir sommersa dalle altre razze di colore che si moltiplicano con un ritmo ignoto alla nostra». Il Duce concludeva allora il suo ragionamento con una domanda retorica e sinistramente minacciosa: «Negri e gialli sono dunque alle porte?» (Benito Mussolini, Il numero come forza, in «Gerarchia», VIII, numero 9, settembre 1928, pagina 677).

Battaglia per la natalità e difesa della razza bianca

Dunque, Mussolini parlava esplicitamente di razza bianca già una decina di anni prima del varo delle tragiche leggi antisemite. Invero, il discorso del 18 settembre 1938, a Trieste, in una piazza dell’Unità d’Italia stracolma, fu il primo nel quale si sentì Mussolini annunciare esplicitamente che, per mantenere il “prestigio dell’impero”, serve “una chiara, severa coscienza razziale che stabilisca non soltanto delle differenze, ma delle superiorità nettissime”. E’ ormai chiaro a tutti, proseguiva il Duce, che “l’ebraismo mondiale è stato durante sedici anni, malgrado la nostra politica, un nemico irreconciliabile del fascismo”.

Ma, come ha sottolineato lo storico Enzo Collotti in occasione del sessantesimo anniversario della promulgazione delle leggi razziali, la spinta a una politica della razza nel fascismo italiano fu connaturata allo stesso retaggio nazionalista,

«che esaltava la superiorità della stirpe come fatto biologico e non solo culturale; che esaltava l’espansionismo italiano attraverso la concezione tardo-coloniale delle colonie come colonie di popolamento, ossia sede di trasferimento e di nuovo insediamento dell’eccedenza demografica dell’Italia e simbolo di superiorità della civiltà e della razza italiane».

Il razzismo coloniale fascista fu sempre caratterizzato da una stretta connessione fra i richiami all’assoluta necessità di una «politica demografica», volta alla salvezza della «razza bianca» da ogni contaminazione con razze ritenute inferiori, e il problema della denatalità, avvertito come sintomo evidente della pericolosa decadenza della Nazione, se non addirittura della intera civiltà europea. Mussolini ebbe modo di chiarire questa sua posizione attraverso discorsi parlamentari e articoli su quotidiani e periodici.

 Il numero è forza, la malattia sociale è declino

Nel suo discorso dell’Ascensione del 26 maggio 1927, tenuto alla Camera dei Deputati, ormai interamente fascistizzata, il Duce si espresse in modo chiaro e inequivocabile sui problemi che affliggevano la razza italiana:

«Affermo che, dato non fondamentale, ma pregiudiziale della potenza politica e quindi economica e morale delle nazioni, è la loro potenza demografica. Parliamoci chiaro: che cosa sono 40 milioni d’Italiani di fronte a 90 milioni di Tedeschi e a 200 milioni di slavi? Volgiamoci a occidente: che cosa sono 40 milioni d’Italiani di fronte a 40 milioni di Francesi, più i 60 milioni di abitanti delle colonie, o di fronte ai 46 milioni di Inglesi, più i 450 milioni che stanno nelle colonie? Signori, l’Italia, per contare qualche cosa, deve affacciarsi sulla soglia della seconda metà di questo secolo con una popolazione non inferiore ai 60 milioni di abitanti… Se si diminuisce, signori, non si fa l’Impero, si diventa una colonia»».

Mussolini riteneva che “in uno Stato bene ordinato, la cura della salute fisica del popolo deve essere al primo posto”. Ma sembrava dubitare che quello italiano fosse in tal senso gente forte e sana: “La razza italiana, il popolo italiano nella sua espressione fisica è in periodo di splendore o ci sono dei sintomi di decadenza?”. E via con la disamina delle principali malattie sociali, dalla pellagra alla tubercolosi, dalla demenza all’alcolismo, con profluvio di dati su malati e deceduti:

«Bisogna, quindi, vigilare seriamente sul destino della razza, bisogna curare la razza, a cominciare dalla maternità e dall’infanzia».

Weimar, Germania, Museo della città e della Repubblica. Manifesti di propaganda, 1933. Foto di Valeria Palumbo

 La razza bianca muore?

Sono note le misure legislative e di welfare familiare varate in tal senso dal regime fascista, a partire dall’ONMI (l’Opera Nazionale Maternità e Infanzia), istituita nel 1925. Nel corso degli anni, si introdurranno incentivi in denaro alle famiglie con più figli, in modo da rendere vantaggiosa la prolificità delle coppie (e, di converso, una tassa sul celibato), così come l’assistenza medica alle puerpere bisognose, sia durante la gravidanza sia nei primi mesi dopo il parto, per insegnare loro i più moderni metodi di puericultura e procurare ai neonati il latte in polvere e i corredini. Ma è bene comprendere che il regime offriva tali sostegni in virtù dell’idea che la maternità, per le donne, fosse un dovere verso lo Stato e la Nazione. Bambini che sarebbero diventati presto futuri combattenti per la conquista di nuove terre.

Il 5 settembre del 1934, la prima pagina de «La Stampa» si apre con un articolo di Mussolini dall’eloquente titolo “La razza bianca muore?” L’articolo è successivo ad un discorso pubblico del dittatore, tenuto nel marzo dello stesso anno, su «La difesa della razza». Nella prima parte del suo contributo, Mussolini rivendicava di aver lanciato, già diversi anni prima, «il primo grido d’allarme sulla decadenza demografica della razza bianca». Taluni lo avevano ritenuto inadeguato, ma a distanza di tempo, si poteva chiaramente rilevare che il «fatale declino» stesse coinvolgendo sempre più Nazioni. L’attenzione del dittatore si focalizzava prevalentemente sulla denatalità francese, citando a questo proposito un appello di venti personalità d’Oltralpe, fra cui Poincaré, Millerand, Herriot e il maresciallo Foch, in cui si invitava il governo francese ad imitare i vincenti ed efficaci provvedimenti italiani e tedeschi in materia di politica demografica. L’appello, fortemente voluto dal partito di estrema destra francese Alliance Nationale, era stato pubblicato nel luglio del 1934. Inutile per Mussolini girarci attorno: «per l’Italia e per gli altri Paesi di razza bianca è una questione di vita o di morte. Si tratta di sapere se davanti al progredire in numero e in espansione delle razze gialle e nere, la civiltà dell’uomo bianco sia destinata a perire».

Se cercate oggi in Internet questo articolo, probabilmente vi imbatterete in siti neofascisti, che ritengono ancora oggi valido quell’allarme, in virtù dell’arrivo di immigrati e profughi nel nostro Paese.

Ma se da una parte si invocava una decisa politica di natalità, dall’altra a Mussolini era ben chiaro che le colonie potevano costituire uno sbocco per l’eccedenza demografica, ossia per quelle famiglie povere, prive di terra, che popolavano il nostro Mezzogiorno. Compito degli italiani fin dall’antica Roma era la “missione civilizzatrice” nei confronti di popolazioni “barbare”; con la conquista di nuove terre in Africa, l’Italia poteva trarre vantaggi economici dallo sfruttamento delle ricchezze presenti nelle colonie, aumentando il numero di italiani dominatori in quelle terre.

In nome della superiorità razziale.

In nome della razza occorreva difendere le genti italiche da contaminazioni, soprattutto nelle terre coloniali. Dal punto di vista legislativo, nel luglio del 1933 il regime fascista stabilì misure restrittive per i figli meticci nati nelle colonie d’Eritrea e Somalia da un genitore di «razza bianca», rimasto ignoto. Questi avrebbero ottenuto la cittadinanza italiana solo previo possesso di specifici requisiti culturali e morali e al compimento del diciottesimo anno d’età. La legge prescriveva, inoltre, accurati procedimenti di «diagnosi antropologica etnica», al fine di evitare di confondere un meticcio con un «bianco scuro» o un «nero bianco». Nella pratica, come ebbe modo di affermare l’allora Ministro delle Colonie Emilio De Bono, non tutti i meticci potevano accedere alla cittadinanza italiana. Tale norma è ritenuta dagli storici la prima effettivamente razzista, poiché rivolta ad un intero gruppo di persone. Ma a quella prima misura legislativa ne seguirono presto altre ancora più restrittive, come ricorda la storica Daniela Franceschi, in un puntuale articolo dal titolo “La politica della razza nelle colonie italiane negli anni del fascismo” (http://www.storico.org/italia_fascista/politica_razzacolonie.html#12).

Del resto, la convinzione del senso di superiorità della stirpe e della razza italiana è evidente fin dalle origini del movimento fascista e sarà poi alla base della politica di repressione, messa in atto contro i popoli slavi, contro i libici, contro gli etiopi nel corso di tutto il Ventennio. Il 22 settembre 1920, nel mezzo dell’impresa fiumana di D’Annunzio e due mesi dopo che i fascisti di Francesco Giunta avevano incendiato l’hotel Balkan, sede del Narodni Dom (centro di cultura nazionale slovena), Mussolini è a Pola, dove afferma: «Di fronte ad una razza inferiore e barbara come quella slava non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone…I confini dell’Italia devono essere il Brennero, il Nevoso e le Dinariche: io credo che si possano sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani».

Una volta conquistato il potere e instaurato il regime dittatoriale, il cosiddetto “fascismo di frontiera” si sarebbe caratterizzato per le violente campagne contro gli allogeni, sloveni e croati che vivevano là da secoli ed erano la metà circa della popolazione. Ciò con l’esplicito scopo di “snazionalizzarli”, cioè cancellare i loro diritti politici, culturali ed economici, costringendoli a “diventare italiani” – perfino nel cognome – oppure a subire le persecuzioni, la rovina, l’esilio. Poi, in seguito allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, nel 1941 quelle stesse popolazioni della Jugoslavia, già provate da vent’anni di violenze e soprusi del regime di Mussolini, si videro invase dalla Wermacht e dall’Esercito italiano. In un discorso alla Camera dei Fasci e delle Corporazioni, il 10 giugno 1941, Mussolini disse:

«Quando l’etnia non va d’accordo con la geografia, è l’etnia che deve muoversi; gli scambi di popolazioni e l’esodo di parti di esse sono provvidenziali, perché portano a far coincidere i confini politici con quelli razziali.» [“Il Piccolo” di Trieste, 11/6/1941].

La Tribuna di Zeppelinfeld a Norimberga. Foto di Valeria Palumbo

 

Deportazioni e massacri in Libia

In quanto a deportazioni di intere comunità, l’Italia di Mussolini aveva già fatto pratica nei primi anni Trenta in Libia, precisamente in Cirenaica, dove pochi sanno che si consumò un vero e proprio crimine contro l’umanità. La Cirenaica era la zona più ricca della Libia, ma anche quella che presentava una ribellione diffusa condotta, fin dall’aggressione italiana del 1911, dall’eroico capo senussita Omar al-Mukhtar, difficile da sconfiggere, perché mimetizzata nel territorio e, soprattutto, perché godeva dell’appoggio della popolazione. Agli inizi del 1930 Badoglio e Graziani, con il beneplacito di Mussolini, decisero di deportare intere popolazioni del Gebel, in campi di concentramento.  Lo stesso Badoglio, cosciente di cosa stava andando a fare, scrisse a Graziani: “Non mi nascondo la portata e la gravità di questo provvedimento che vorrà dire la rovina della popolazione cosiddetta sottomessa. Ma ormai la via ci è stata tracciata e noi dobbiamo perseguirla fino alla fine anche se dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica”. Come ha ricostruito lo storico Giorgio Rochat, si può ritenere per approssimazione che circa 100/120.000 persone furono deportate nei campi di concentramento nel deserto in condizioni terribili, e circa la metà morì di fame, malattie e stenti. Lo stesso Rochat ha scritto:

“Questo non è l’unico genocidio della storia delle conquiste coloniali, se ciò può consolare qualcuno, ma è certo uno dei più radicali, rapidi e meglio travisati dalla propaganda e dalla censura”.

Una pagina di storia scomoda, imbarazzante, che fu denunciata in un film del 1981, “Il leone del deserto”, un kolossal girato negli Stati Uniti del regista siriano Moustapha Akkad, interpretato da Anthony Quinn (Omar al-Mukhtar), Oliver Reed (Rodolfo Graziani) e Rod Steiger (Benito Mussolini). La produzione fu finanziata direttamente da Gheddafi e il film uscì in prima mondiale a New York nell’aprile 1981 e al Festival di Cannes del 1982. Distribuito in diversi paesi europei, ma non in Italia, perché non ottenne il visto della censura. L’allora Sottosegretario agli Esteri Raffaele Costa, del Governo Giulio Andreotti, lo definì lesivo dell’onore del Regio Esercito. Non è mai andato in onda sui canali Rai, ma una sola volta, l’11 giugno del 2009, sul canale a pagamento Sky Classics, in occasione della visita di Gheddafi nel nostro Paese. Oggi, per fortuna, è disponibile su Internet https://www.youtube.com/watch?v=ITJ9-tGNB_U.

La politica di repressione violenta e di deportazione in Libia assunse, per certi aspetti, i tratti di una lenta e graduale sostituzione etnica. Migliaia di italiani si imbarcavano festosamente verso le nuove terre, prodighe di frutti e di ricchezze (secondo la propaganda), e la popolazione autoctona veniva sottomessa e, in parte, eliminata.

Si pensi solo all’arrivo dei “20.000 rurali italiani in Africa”, il 9 novembre del 1938, proprio qualche settimana dopo l’entrata in vigore delle leggi razziali. Un filmato dell’Istituto Luce mostra decine di migliaia di italiani osannanti all’arrivo al porto di Tripoli, che scendono dalla nave acclamati da altrettanti coloni festanti (una sorta di viaggio alla rovescia, dall’Italia alla Libia), e che cantano Giovinezza sotto la grande statua equestre di Benito Mussolini “pacificatore delle genti, redentore della terra di Libia…”  https://www.youtube.com/watch?v=ALPnph9JHRA

Sappiamo bene che il colonialismo italiano non nasce con il fascismo, ma con l’Italia liberale postunitaria. Tuttavia, negli anni Trenta Novecento, si assiste a un’accelerazione del progetto di conquista. Mussolini vuole l’Africa, il suo posto al sole, e per ottenerlo deve conquistare gli italiani alla causa dell’impero. Dai giornali satirici come “Il travaso delle idee” fino al “Corriere della sera”, i media sono tutti mobilitati. Uno degli argomenti preferiti dalla propaganda era la schiavitù. I giornali erano pieni d’immagini di donne e uomini etiopi schiavi: “È il loro governo a ridurli così”, spiegavano, “è il perfido negus, andiamo a liberarli”. La guerra non viene quasi mai presentata agli italiani come una guerra di conquista, ma come una di liberazione.

Una liberazione costata molte vittime e molta sofferenza. Ricordiamo che durante la guerra d’aggressione in Etiopia, come hanno documentato due autorevoli storici come Angelo Del Boca e Giorgio Rochat, le bombe lanciate furono «duemilacinquecento, in gran parte caricate a iprite». Al momento dell’esplosione «producevano vapori mortali e una pioggia di goccioline corrosive, che penetravano attraverso pelli e vestiti producendo lesioni interne gravissime». Il boicottaggio internazionale, con le sanzioni decise dalla Società delle Nazioni, avrebbe convinto Mussolini ad avvicinarsi a Hitler, inducendolo alla stipula, nell’ottobre 1936, di quell’alleanza denominata “asse Roma-Berlino”, confermata, nel maggio 1939, con il “patto d’acciaio”.

Ma fino ad allora, come è stato fin qui documentato, il fascismo italiano aveva intrapreso per primo la sua battaglia per la razza in splendida solitudine, divenendo un modello per altri governi dittatoriali.

Augsburg, Street Art. Foto di Valeria Palumbo

Ciccioli, le Marche, la polemica sulla denatalità

E per concludere, torniamo al presente e alla dichiarazioni di Ciccioli:

«In questo momento di grande denatalità della società occidentale, sostenere con grande enfasi questa battaglia, che aveva un suo senso negli anni ’60 e ’70 è fuori posto. La battaglia da fare oggi è quella per la natalità, non c’è ricambio e non riesco a condividere il tema della sostituzione, cioè che siccome la nostra società non fa figli allora possiamo essere sostituiti dall’arrivo di persone che provengono da altre storie, continenti, etnie, da altre vicende».

Ciccioli, per inciso, è medico specializzato in psichiatria, criminologia clinica e neurologia: ex Movimento Sociale Italiano, è stato negli anni Settanta del Novecento un picchiatore fascista e, nel 1974, ha sparato anche a uno studente. Il Direttore generale dell’Ufficio scolastico delle Marche, Ugo Maria Filisetti, gli ha dato ragione: “L’aborto non è una cosa positiva. Io ho otto figli. Che nelle Marche abbiamo un calo demografico è oggettivo. Che questo calo si aggiunga a un aumento della popolazione straniera, pure. Che l’aumento porti a una rivoluzione antropologica è un altro fatto oggettivo. E una rivoluzione antropologica è lacrime e sangue”, ha detto. Nel 2021, non nel 1921. Ammesso che allora fosse lecito essere razzisti.

 

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