Vercesi intervista Moroldo

«Dicevo: se uno viene qui, in Vietnam, riesce a capire quanto grande è il valore della vita. E l’Oriana, quella frase lì, se l’è messa in bocca. Mentre lei faceva il Vietnam con la macchina da scrivere, io ho fatto tre servizi fotografici col botto. I suscià dei viet li ho raccontati io, cosa fanno, dove dormono, quando vanno a pulire le scarpe ai soldati. Corrono dietro all’americano per farsi dare dei soldi, vanno ai mercati a rubare la frutta, mangiano il gelato, vanno sul triciclo, e se qualcuno scopre che hanno fatto una marachella, scappano via, si tuffano nel Me Kong. Poi ho fatto la storia di una recluta appena arrivata in Vietnam, che combinazione si chiamava Kennedy, un bel ragazzetto mandato in prima linea su un promontorio chiamato Montagna della Vergine, zona pericolosa perché è tra la fine della Strada di Ho Chi Minh e la Cambogia. Lì sono andato con l’elicottero. In Vietnam c’era una regola: prima i feriti, poi i fotografi e i giornalisti, poi le truppe, poi il resto. E infine la storia dell’ambasciatore americano sfidato dai vietcong a farsi ammazzare. Lui ha accettato la sfida: “Vi dico tutto quello che faccio, dalla mattina alla sera, e voi venite a uccidermi, se ne siete capaci”. Sono stato con lui un paio di giorni, senza paura, perché ero allenato. Figuriamoci: avevo fatto il Burundi, il massacro dei watussi con Mino Monicelli, la guerra indo-pachistana per la conquista del Kashmir, da solo. Avevo un’esperienza di scontri duri, e avevo imparato a sopravvivere alle falsità dei pericoli nascosti. Con l’Oriana sono stato in Libano non so quante volte, e in nessun altro posto al mondo era più facile morire. Avevo ottenuto i permessi dai vari gruppi religiosi o politici, cristiani e sciiti, musulmani e hezbollah. Però non sapevi mai chi ti stava fermando, e allora tanto valeva non avere permessi in tasca, stracciarli tutti, così, se ti perquisivano, come due volte mi è capitato, stavi tranquillo. Io mettevo nel passaporto dei soldi, se erano due soldati, cinque dollari, se erano quattro ragazzi, dieci. E tutto filava via liscio. Quando arrivavo ad un posto di blocco di africani, se vedevo gli occhi rossi mi muovevo lentamente, stavo a sentire, esploravo e dicevo: “Vuoi una sigaretta? Ci facciamo una fumatina insieme?”. Se avevano gli occhi rossi, voleva dire che erano drogati: i neri non fanno la sentinella per quattro ore, a volte li sbattono lì alla mattina alle otto e li lasciano in piedi per una settimana intera. Ogni tanto passa una macchina o un camion che lascia da bere e qualcosa da mangiare. Per resistere arrangiano mangiando erbe, foglie come quelle di coca. Le masticano e questo li tiene su, svegli. Ma sono pericolosi. Non devi avere orologi o catenine; se tiri fuori i soldi, devi far vedere solo gli spiccioli, dieci, quindici, venti dollari al massimo e poi magari gli dai due o tre dollari, anche se lo sanno che non hai solo quelli. Per gli altri, prendi un bel cerotto e fingi una medicazione all’altezza della cintura, così se uno ti palpa sente duro ma ci passa sopra. Per le macchine fotografiche io non ho mai avuto problemi, anche se c’è gente che se le è fatte fregare perché ha sbagliato la mossa. Per una banalità puoi perdere la macchina. E puoi perdere anche la vita, puoi».

«Tra rivoluzioni e guerre ne ho fatte diciotto. Parto dalla rivoluzione ungherese e l’ultimo giro l’ho fatto in Somalia, nel Novantatrè, con Biagi, e il penultimo in Jugoslavia, con Feltri. Ho fatto questo mestiere dal 1958, per trentacinque anni. Sono nato nel 1927 e sono arrivato all’Europeo con Benedetti nel ’54. Collaboravo, perché ho sempre voluto la libertà, poi l’amministratrice della Rizzoli mi ha consigliato di lavorare fisso, ed allora sono stato assunto, nel ’58, sotto la direzione di Fattori. Sì, ce l’ho un rimpianto, quello di aver perso un grande reportage con Tommaso Besozzi, quando è andato in Sicilia e ha bruciato tutti scrivendo che il bandito Giuliano era stato ucciso da suo cugino Pisciotta, con un caffè, mica dai carabinieri, come si diceva: era stato un grande scoop dell’Europeo. Ma io non c’ero. Uno scoop dell’Europeo, uno tra tanti, perché li faceva spesso, anche se aveva una tiratura non esagerata, al massimo di 190 mila copie, 220 mila per l’uomo sulla Luna, poche rispetto a Oggi».

«L’Europeo di quegli anni era un giornale senza un’impostazione fissa. Direttore era Tommaso Giglio, uno che tagliava le gambe, che poteva far rifare un pezzo quattro, cinque volte, ma chiedendolo con grazia, delicatezza, dicendo: non hai tirato fuori tutto, c’è qualcosa che tieni ancora dentro, non hai dato il meglio di te stesso. Erano provocazioni, che però facevano venir fuori il giornalista, gli davano l’impostazione giusta, gli facevano capire che per essere un buon reporter non bastava riempire i taccuini (i registratori sono arrivati dopo: allora c’era solo l’Oriana che andava in giro col Philips). Quando tornavi da un servizio dovevi scrivere tante cartelle: per riempire sei, otto pagine e non bastavano dodici, quattordici cartelle; le mie didascalie erano di centocinquanta, duecento battute. I pezzi venivano letti tutti, uno per uno, dal direttore o dal vicedirettore; non c’era scampo. Se c’erano dubbi – ecco la grande scuola dell’Europeo (dal 1960 al ’75) –, il direttore andava da un redattore e diceva: prova a leggere questo pezzo, dimmi come lo trovi. E via».

«Oriana è stata il numero uno nel giornalismo italiano, ma non ha mai avuto rapporti con la gente: lei fa la diva. Dopo vent’anni è riuscita a bisticciare anche con me, per una banalità. E non l’ho più rivista. La conoscevo bene, in tutto, più che una sorella, più che una moglie, più che un’amante: vent’anni non sono pochi. Era opportunista, molto egoista, ma sul lavoro era un mostro, nelle interviste era micidiale. Con lei ho fatto i grandi servizi del Vietnam, sei o sette volte, e gli Incontri con la storia, cioè le interviste ai grandi personaggi. Mi ricordo bene lo scià di Persia, che già conoscevo perché ho fatto il paparazzo a Ginevra, a vedere con quali donne andava, però non lo beccavo quasi mai, perché lui i suoi lavoretti li faceva di notte. Un bel giorno si sposa con Farah Diba. E io ci sono. Che tempi! Sono arrivato con l’aereo privato della Rizzoli, con due fotografi di Oggi, un giornalista di Oggi e uno dell’Europeo. Eravamo all’Hilton. All’Ufficio di Accoglienza guardano la lista delle richieste e ti danno il pass per il giornalista e per il fotografo, che si mettono in zone differenti. I fotografi sono collocati in due o tre aree diverse: bisogna indovinare qual è quella buona. Io ho scelgo quella da dove sarebbero entrati nella grande sala. Alla fine della cerimonia lunghissima, perché lui si sentiva discendente diretto di Maometto, li vedo arrivare, lei bella ragazza, lui con grande presenza, simpatico con la sua divisa. Sparano i flash e si muove tutto: persone, seggiole, bancarelle, transenne. Sono mitragliatrici che vanno: io ho fatto tre fotografie secche. Siamo rimasti tre giorni in tutto: Teheran non era in un’atmosfera di grande festa, non è mai stata una città di grande festa. Poi l’ho intervistato con l’Oriana, che riusciva ad avere questi personaggi grazie alle ambasciate italiane che combinavano per lei gli incontri. La sua grande fortuna è venuta con l’intervista a Kissinger, segretario di Stato nel periodo Nixon, ma io non c’ero. Siamo stati lì quattro giorni; mentre aspettavamo siamo andati in giro a vedere il bello di Teheran. Poi siamo andati all’ambasciata per sapere come ci si doveva comportare, ma non c’erano grandi obblighi, perché lo scià era un democratico, libero. Ci si presenta a palazzo, arriva il colonnello, la guardia, ti accompagnano, c’è il segretario personale: Sua Maestà ci attende. L’Oriana parla in inglese. Il segretario bussa, entra, ci annuncia allo scià, esce ed arriva lui. Entra prima la donna, poi io, senza fare il baciamano, lui è imperatore e non si abbassa. Sempre con un’aria molto democratica e aperta, lui. Io ho la tentazione di rubargli le tartarughe: cinque, d’oro, messe in scala sul tavolino. Il problema era che se la mattina dopo la donna delle pulizie si accorge che ne manca una, capiscono subito che sono stato io. E allora la imetto a posto. Tutto dura un’ora e mezza, due forse. Ben fatto: lui parla in inglese ed anche molto bene in francese. L’Oriana, però, preferisce l’inglese».

«Non ha mai imbrogliato, con nessuno, nelle interviste. Faceva la domanda e magari, poi, quando iniziava il suo pezzo, la ponderava o aggiustava, ma senza uscire dagli schemi. Dopo, ultimamente, si è fatta beccare in castagna, ma io non c’ero, credo fosse con Khomeini. In Vietnam si muoveva come un uomo: non ha mai giocato sull’equivoco di essere femmina. Bastonava duro, io ho letto tutto il suo libro. Quando l’ha fatto sono nate anche delle discussioni tra noi, perché il giornalista, quando diventa scrittore o romanziere, certe situazioni le ritocca. Io gliele ho rimproverate, ma non è che sia stata una tragedia. Quando fece il Vietnam tutti i giornali di sinistra scrivevano: “Ecco il vero Vietnam, è quello raccontato da Oriana Fallaci”. Dopo, l’Oriana va ad Hanoi con una commissione di donne italiane, sempre comuniste. Lì, l’Oriana bastona a morte: dice che quello che vede è già tutto preparato come un teatrino, che voleva andare in chiesa e gliel’hanno proibito e poi è arrivata al massimo dei massimi dicendo che le avevano proibito di andare al gabinetto. E allora è diventata di destra». «La prima volta che lei arrivò in Vietnam fu insieme a me. Io ero già andato prima, nel ’64, a fare foto-testi: vai, fotografi e metti insieme delle storie con lunghissime didascalie. Poi sono tornato e Giglio mi chiede se me la sento di portare l’Oriana in Vietnam. Io gli rispondo che è interessante, anzi, che con l’Oriana sarebbe stato un super Vietnam. Non era ancora la grande Oriana: aveva scritto dei libri, ma il grande salto l’ha fatto dopo. Ho lavorato con lei vent’anni, dal ‘62, ma ho fatto dei servizi anche prima: il festival di San Remo, il festival del cinema di Venezia e quello di Cannes. Però lei faceva il suo servizio e io le mie fotografie: si faceva il personaggio di Mina ed io mi sbattevo facendo le fotografie. Ma non c’era matrimonio. Poi è arrivato il grande botto: il Vietnam».

«Questa è una storia romantica: l’unica volta che l’Oriana mi ha detto che ero un grand’uomo. Ero sulla terrazza di un albergo, il Continental. Sulla destra c’era un bar: ogni tanto andavo lì e prendevo il cappuccino con delle stupende brioche. C’era il coprifuoco, in quel periodo. Di fronte a me c’erano due ragazze che continuavano a ridere, fare moine e io pensavo che qui ormai le agazze erano obbligate, se vogliono tirare fuori la testa, ad andare a caccia di amici che diano loro dei soldi. Io non le chiamo prostitute, perché non lo fanno per vizio, per non lavorare. Così è volgare. La ragazza che sì dà per salvare la pelle, per mangiare, per vivere o per mantenere la sua famiglia, per me non è una prostituta: ha più princìpi degli altri. Ad un certo momento suonano le sirene per segnalare il coprifuoco e le ragazze, una era cambogiana, l’altra vietnamita, mi dicono di andare via dal bar. E io sono andato via, anche se non avevo problemi per tornare in albergo, perché ero lì, attraversavo la strada e facevo due gradini. Mi guardavano come gattine spaventate, una prendeva la mano dell’altra e parlavano fra di loro in vietnamita. C’era qualcosa che non capivo, ma c’era. E allora il vecchio lupo si è adeguato: ho guardato la via dove andavano, hanno girato a destra, sono tornate indietro ed io le ho bloccate. Ho chiesto dove andassero e loro, un po’ impaurite per l’angoscia del coprifuoco, mi dicono che stavano cercando un posto per passare la notte, perché quella prima avevano dormito sotto una galleria ed erano state infastidite. Io le ho invitate a venire in albergo, senza farsi vedere dalle pattuglie. Vado dal vecchio portiere del Continental e gli chiedo se posso portare due ragazze disperate che non sanno dove dormire. Lui le ha guardate, ha chiesto loro qualcosa ed ha detto che andava bene. Sono entrate: la mia camera era immensa, con un letto doppio ed uno piccolo per la terza persona. Ho lasciato il mio letto alle due ragazze e ho dormito nel letto piccolo. La mattina, alle sei, dovevo alzarmi perché dovevo partire, avevo finito il lavoro. Prima che andassi, una di queste si è alzata, mi ha abbracciato e mi ha detto che ero stato molto gentile. Le ho dato cinquanta dollari: erano una cifra. Poi, con molta delicatezza, mi hanno chiesto se era possibile mangiare un po’ di riso e del pollo ed io ho detto di sì. Scendo, vado dal portiere e gli chiedo se può fare avere alle ragazze un po’ di riso e pollo, ad una certa ora. L’Oriana arriva, bussa e vede la ragazza che apre e le dice che io sono già sceso. Io le spiego che in camera c’erano due ragazze e che io, per una delle poche volte nella mia vita, le avevo prese, portate su e messe nel mio letto a dormire perché avevo avuto veramente la sensazione di vedere l’apocalisse. E senza toccarle, dando loro solo il letto, qualcosa da mangiare e della moneta per sopravvivere. L’Oriana, allora, mi ha detto che ero un grand’uomo».

«Tornavo dal servizio coi rullini; li ho spediti una volta sola, con Alberto Ongaro, un altro grande inviato dell’Europeo e un personaggio, premio Campiello, scrittore, amico e rivale di Hugo Pratt. Ongaro era uno che andava in ufficio e si rinchiudeva senza uscire mai. Molto bello, tipo indios, bresciano, in conflitto con Hugo Pratt perché quest’ultimo continuava a far viaggi e gli raccontava che era andato in Polinesia e l’avevano fatto principe o da un’altra parte l’avevano proclamato re. Io ho fatto cose stupende con Alberto Ongaro: l’Africa! Ti ricordi gli album di Tartan, di Cino e Franco, quelli che stampava Nerbini, a Firenze, e c’erano gli uomini-leopardo, gli uomini-caimano. Noi siamo andati in Camerun a cercare proprio gli uomini-leopardo, e li abbimo trovati, in una zona di quel Paese lì che si divide ancora in ducati, in principati. Josef era un capo degli uomini-leopardo che andavano a spaventare la gente, per portare via il bestiame. Lì Alberto chiese se poteva avere anche un titolo onorifico africano. Lui è stato eletto Uomo che accende il Fuoco, che sarebbe colui che sostituisce il re quando manca; io sono Figlio prediletto del Re. In cambio abbiamo lasciato cento franchi per i bambini poveri e per le famiglie bisognose. Alla fine della cerimonia mi regalano una capra ed un casco di banane; alla macchina, gli accompagnatori, con feste e saluti, aprono il baule, mettono la capra e io dico ad Alberto di accendermi la sigaretta, visto che era l’uomo che accende il fuoco. E lui: “Io ti tolgo il titolo! Tu non conti niente nella classe sociale e politica del Paese!”. Al che è nata una lotta fra di noi: lui diceva che contava molto nella vita, mentre io ero solo il figlio coccolone del capo. Il re era una bestia di un metro e novanta; noi siamo arrivati alle cinque o alle sei di mattina e abbiamo svegliato tutto il villaggio. La cerimonia avviene davanti alla capanna sacra del totem, dove c’è tutta la corte del re. Lui arriva con tunica azzurra tutta ricamata, un uomo di cento chili a dir poco. Non so se aveva donne, perché le donne sono marginali in Africa: dapprima vengono sempre gli uomini, mentre le donne restano agli angoli durante le cerimonie, coi bambini. Doveva essere verso gli anni Settanta. Lui parla e si rivolge verso di me e dice “wembesà”. Io capivo solo questa parola: mi chiamavo “wembesà”, cioè figlio del re. Il re all’amico: “Tu invece sarai wemkem dufè”, che sta per “persona importante” che, quando il re è assente, può gestire le vicende. Ed io al mio amico: “Sì, sei importante, ma sei sempre un accendino, quando vai via devi accendermi il fuoco se ho freddo”. Ci ha regalato due bracciali d’argento e ci ha fatto incidere il nostro nome. Io il mio l’ho perso, sono distratto: c’era scritto “wembesà”, era d’argento e non si allacciava, si metteva così… ».

«Però i migliori servizi li ho fatti in Messico, sempre con Ongaro, quando siamo andati a cercare l’ultima donna di Emiliano Zapata, che era ancora viva. Per Alberto è stata una grande emozione, per me era una cronaca normale: una signora che viveva in una capanna che io ho fotografato. Ci è venuto in mente, così, per caso, di andarla a cercare, non siamo andati in Messico di proposito: avevamo trovato dei vecchi militanti della rivoluzione di Emiliano ancora coi loro faciloni, glieli abbiamo fatti tirare fuori, li abbiamo messi lì e io li ho fotografati. E i vecchi campesinos ci hanno detto che la sua donna era ancora viva. Era molto povera e viveva di elemosina fra quattro assi messe su così, non era una casa. Però era emozionata, quando ci ha visti arrivare, era emozionata. Ongaro, che ha vissuto in Argentina, parlava lo spagnolo vero; io so, sento, capisco, posso dire qualche parola, ma non di più. Lì, poi, è scattata l’idea di andare a trovare la maga Sabina, conosciutissima nel mondo perché era la regina del fungo allucinogeno. Per andare in quella zona abbiamo rotto le scatole a tutti, abbiamo trovato un pilota che ci portasse con un aereo tipo focherino, solo e tre o quattro posti, che atterrava ogni 100 metri. Il pilota doveva atterrare lì, sul burrone, a Wautla: era novembre, il giorno dei morti. Il fungo, secondo noi, faceva gola all’America e alla Russia, perché poteva non dico far fuori, ma almeno far addormentare un reggimento di soldati. C’è una procedura per fare questo fungo che solo lei sapeva, là sulla montagna, e si trovava solo lì quel fungo. Le altre, sempre con giudizio, ce lo facevano prendere, ma c’era una cerimonia lunghissima. Una sera siamo andati in una capanna con dei ragazzini ed abbiamo detto che volevamo mangiare il fungo, intanto loro fumavano marijuana. L’effetto era quello di far ricordare la gioventù, far tirare fuori tutte le rabbie e tante cose, tutto il passato, ma senza che uno soffrisse fisicamente: se da bambino, ad esempio, c’era un ragazzo prepotente, questo fungo te lo faceva ricordare e rimuovere completamente dalla mente, cancellava una certa memoria passata. Io, però, questo non l’ho provato e non te lo posso dire, ma c’erano testimonianze. C’era della gente che garantiva. Mi ricordo una ragazzina che era stata portata dai genitori, perché lei aveva gli incubi di notte, continuava ad alzarsi, sognava ed urlava. La maga, fredda, glaciale, le ha dato il fungo, l’ha fatta parlare e poi l’ha fatta portare a casa. Noi non sappiamo se ha avuto successo oppure no, ma so da fonte sicura che il governo messicano aveva degli assistenti sociali che vivevano lì e dovevano proteggere il paese. Chi veniva lì, dalla montagna, a piedi, o con l’aeroplano, doveva passare da loro ed essere controllato, perché c’erano in giro elementi che si facevano passare per hippy e magari erano della Cia o dell’Fbi».

«È sparito l’inviato. Dico l’inviato come l’ho conosciuto io, iniziando nel ’58 con un terribile Giorgio Bocca, fragile, fragilissimo, innanzitutto perché è di Cuneo ed i cuneesi sono un po’ introversi. Inoltre veniva dalla Gazzetta del Popolo, e adesso affrontava non dico Milano ma il grande editore, quindi erano comprensibili le sue nevrosi, le sue difficoltà. Però si vedeva che era uno che cercava, pensava, si metteva alla macchina da scrivere, la famosa Lettera 22. Quando scriveva il primo foglio, lo rileggeva e poi rifaceva cinque, sei, sette, otto, dieci fogli, perché la vera grande regola era che se costruisci le prime dieci righe, per i modesti, e cinque, per i bravi, ed il pezzo va via che scivola, allora hai conquistato il lettore; è una teoria inventata per dare stimolo al giornalista. Io ho incominciato nel ’58, con Bocca, a fare le prime esperienze di reporter e da lì sono andato avanti a cercare di essere sempre meglio. Poi ho trovato Gianni Roghi, un ragazzo intelligentissimo, di cultura, sportivo, con tutte le più belle qualità che un uomo, un giornalista possa avere; però era un boccalone: credeva a tutto, perché era un puro, un onesto. Quando andò in Africa per fare un servizio in cui doveva seguire una spedizione del Cavalli Sforza, scienziato di Pavia, alla ricerca dei Pigmei dell’Africa centro-equatoriale, ad un certo momento decise, con scatto geniale, di andare a cercare gli animali che non vivono nelle riserve, ma allo stato brado, soprattutto gli elefanti. Dovevo andarci io ma Gianni mi fa: “Ti spiace se ci vado da solo?”. Si era sposato una bellissima ragazza. Gli ho detto: “Sì Gianni, però sta attento, l’Africa è traditrice: metti il piede fuori dalla porta e non sai mai cosa trovi, se il leone, se la iena, se il serpente. Se vai in giro, non andare da solo, porta tante scorte, dalle medicine ai libri, perché l’Africa non perdona niente”. È arrivato quasi alla fine di un viaggio in cui ha chiamato i ragazzini per fare da battitore, che venissero a stimolare gli elefanti. E l’elefantessa è uscita. Il nero che l’accompagnava aveva il fucile, la moglie era sulla strada terrorizzata e lui ha ritardato per dare una spinta, fortunatamente, alla moglie; l’elefantessa è passata e l’ha beccato in pieno, gli ha spappolato il torace, la parte muscolare e forse ha provocato anche qualche frattura. Si è trovato senza niente, solo con una jeep, senza il telefono, senza collegamenti. È rimasto lì due o tre giorni: ha mandato un nero con una macchina in un centro per cercare di telefonare a Bangui, perché mandassero un medico. I francesi in Africa sono dappertutto. L’hanno preso e portato all’ospedale; gli ho telefonato la sera e stava già benissimo, quasi in via di guarigione. Sì, è stato operato, ha perso un po’ di sangue, ma la mattina alle sei era a posto. Lui era un grande subacqueo, uno dei pochi in quel periodo, nel Sessanta, che andava con le bombole a 110 metri; però aveva beccato un embolo che si dev’essere rimesso in circolazione, avendo perso molto sangue. Però era un grande inviato. Io sono andato con lui a fare la diga del Frejus con l’idea che, se tutti lo fanno visto da Ovest, noi andiamo a fare la diga da Est, per vedere cosa c’è, cosa contiene, come è possibile che una parete abbia ceduto. Il nome del giornalista è Gianni Roghi, figlio di Bruno Roghi, uno dei grandi giornalisti sportivi, ed è morto a 39 anni. Aveva scritto un libro con Ferrari; non sapeva guidare le Ferrari, però. Da grande inviato, aveva fatto dei servizi in India: “Sono andato a Benares dagli stregoni e ho trovato uno che mi ha letto la vita e mi ha detto che a 39 anni morirò”. Io dico: “Oh!, sei lì, tra poco ci sei!”. La sua macchina da corsa aveva il numero 39, e lui a 39 anni è morto. Non so se bisogna credere a queste cose. Però se leggi il pezzo che ha scritto sui maghi di Benares c’è tutto. Scriveva per l’Europeo, Roghi, era tra i migliori e avrebbe migliorato ancora. All’Europeo, un posto di iene in fatto di scherzi: a Gianni Roghi fu preparato un telex che veniva da Le Mans dove si diceva che la Ferrari aveva scelto come terza guida per la corsa delle 24 ore Gianni Roghi. Lui ha preso la sua Scaglietti ed è andato fino a Le Mans. Tutto da ridere, e lui si è divertito lo stesso».

«Poi c’era Pierini, grande inviato, anche se un po’ pesante fisicamente, alto, un bestione di cento chili, mentre per fare l’inviato bisogna essere un più leggeri, molto snelli, non sofferenti. Quando siamo andati a fare le elezioni in Algeria, prendeva il Bicoren, perché la temperatura ed il cambiamento del clima gli portavano degli scompensi. Lavorava lo stesso, però era pericoloso, perché gli poteva succedere qualcosa: lui lo sapeva ed era apprensivo, allora preferiva fare i servizi a braccio corto, cioè in Algeria, Tunisia, limitati al Mediterraneo».

«Poi c’erano i servizi pesanti, oltre il Mare nostrum. A volte io facevo l’inviato in foto-testi, come per il massacro di Stanleyville. Arrivavo sul posto e spesso mi trovavo fianco a fianco con il grande maestro di tutti i giornalisti italiani, Egisto Corradi. Eravamo amici e mi ha insegnato tante cose. La prima regola: quando si va a fare un reportage dove c’è una rivoluzione, una guerra, il caos insomma, ti devi portare due uova sode, due pacchetti di cracker e due scatolette di acqua minerale. Se resti isolato, puoi campare due giorni senza problemi. Egisto era uno che quando arrivava sull’avvenimento, andava a vedere tutto: dove avevano ucciso, dove avevano sfondato, dove i neri erano penetrati nella missione, con quali attrezzi avevano ucciso o massacrato: faceva un’analisi completa. Io lo chiamavo il santommaso, perché andava dappertutto e voleva sapere tutto, non solo a sentire la campana del vescovo, ma anche quella del ribelle; devi andare a sentire quello di destra e poi quello di sinistra, per avere un equilibrio dei rapporti. Poi tu non tiri le conclusioni, ma dici: “Il tale mi ha raccontato questo e il tizio quest’altro”. Ecco, sono che cominciavo a imparare e sono le più preziose. Egisto era un parmigiano e quindi aveva un carattere particolare. Era un uomo tozzo, con la faccia da levantino; non aveva i lineamenti da parmigiano, però lui diceva che si sentiva tale fino nelle viscere. Un giorno mi dice: “No, io quel fiume lì, il Congo, non me la sento di attraversarlo”. Gli era rimasto sempre impresso il grande dramma della ritirata di Russia, ed è questa una delle ragioni per cui andava in giro con le uova sode, i cracker e così via. Diceva che lui, della ritirata di Russia, sentiva ancora il dramma che non c’era da mangiare, anche se eravamo nel ’64 ed erano passati vent’anni. Davanti al Congo gli deve essere venuto in mente qualche cosa della campagna di Russia, perché mi dice: “No, io non vengo. Gianfranco, guarda che è molto pericoloso, i simba te li trovi dietro un albero, una capanna, o ti sparano di nascosto”. E io: “Sì, va ben, cercherò di evitare, starò attento, guarderò”. Sono andato a fare il servizio sul massacro di Stanleyville, sono tornato e gli ho raccontato tutto: i morti che ho trovato, dove erano, come erano. E lui, da inviato serio, da vero giornalista, non ha scritto: “Vi racconto la storia del massacro”, ma a detto che il fotografo dell’Europeo Gianfranco Moroldo, avendo attraversato con i mercenari il fiume Congo, gli aveva raccontato quello che aveva visto al di là del fiume. Ecco i santommasi. Egisto Corradi è venuto a fare la guerra del Bangladesh, pachistani contro indiani: lui era là. Se c’erano i mujaheddin che venivano ad ammazzare gli avversari, lui era là a vedere, era presente nelle situazioni che doveva raccontare. Se c’era il “forse, si dice, mah, mi hanno raccontato”, metteva il nome e il cognome della persona che gli aveva riportato l’episodio, la storia, specificando di raccontare quello che il signor tal dei tali aveva detto di aver visto o vissuto. Essì, è proprio sparito l’inviato. Dico l’inviato come l’ho conosciuto io».

Pier Luigi Vercesi

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